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Mercato Stato Sviluppo welfare

Già, cos’altro vogliono?

Già, cos’altro vogliono?

La manovra Monti cancella con un tratto di penna le conquiste dei sessantottini. Chi è nato dopo il 1952 lavorerà di più e percepirà prestazioni ridotte (anche se su standard europei). Viene messo in discussione anche il privilegio concesso ai lavoratori autonomi di riscuotere l’assegno senza aver versato i contributi. Prossima tappa, la “mobilità in uscita”, alias licenziamenti. Insomma, il vecchio contratto sociale non esiste più. Un nuovo patto è tutto da scrivere e sarà il tema della nuova legislatura. Niente del genere è stato fatto, in così poco tempo e in così vaste proporzioni, in Germania, in Francia o in Spagna. Cos’altro vogliono i mercati, specialmente in uno scenario di basso sviluppo in tutto il mondo?

Stefano Cingolani Il Foglio, 28 dicembre 2012

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Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Disoccupazione

Diritto all’insolvenza.

Diritto all’insolvenza.

Il diritto all’insolvenza reclamato dagli indignados d’Italia, cui neppure sfiora l’idea che possa esserci qualcosa di diverso nella vita -e di più costruttivo- che non il lamentarsi ed il pretendere che altri risolva il problema, qualunque problema, è il diritto all’irresponsabilità. E’, semplicemente, il diritto a non subire conseguenze per i propri atti, a vivere senza che importi quello che si fa, perché tanto qualcuno aggiusterà. Il diritto all’insolvenza è la peggiore forma si statalismo che si possa immaginare e non sorprende che arrivi dagli indignados: chi non sa costruire nulla, può solo pretendere, dagli altri e dallo Stato.

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Felicità PIL Rischi welfare

Non siamo padroni del nostro destino.

Non siamo padroni del nostro destino.

L’incertezza ci si presenta così come una sorta di “precariato” dell’esistenza: ma se da un lato noi continuiamo ad aspettarci dalla tecno-scienza un controllo previsionale della natura fisica, e a rivendicare dallo Stato la tutela dei nostri diritti individuali e sociali; dall’altro lato queste aspettative e queste rivendicazioni finiscono forse con il coprire quel livello più radicale e più inquietante che sempre, poco o tanto, l’insicurezza rende evidente, e cioè che non siamo i padroni del nostro destino. Ma allora si pone una domanda: la mancanza di certezza coincide totalmente ed esclusivamente con la nostra incapacità a far fronte agli imprevisti della vita, ai casi della natura e agli accidenti della storia? Se la risposta è sì, allora l’incertezza è solo il riverbero di uno scacco, di una condanna, qualcosa come una maledizione. Ma se guardiamo più attentamente, essa è in grado di attestare anche qualcos’altro, vale a dire il nostro essere-esposti costitutivamente a ciò che accade, che ci raggiunge, ci tocca, e per ciò stesso ci spiazza, ci provoca, ci chiama in causa.
Costantino Esposito, Meeting di Rimini,23 agosto 2011

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Felicità Rischi welfare

Un continuo e incurabile stato d’incertezza.

Un continuo e incurabile stato d’incertezza.

A livello di esperienza individuale, sono cambiate soprattutto le nostre preoccupazioni e le nostre ansie rispetto all’incapacità di far fronte con i nostri mezzi alle minacce dell’imponderabile e del caso: «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile» . Da un lato dunque l’incertezza appare insuperabile; dall’altro lato, però, questo non significa – come ci si aspetterebbe – una rinuncia a trovare assicurazioni per l’esistenza: e da tale contrasto nasce una sempre più diffusa paura.
Così l’organizzazione sociale, che nell’epoca moderna era stata pensata come un argine rispetto all’instabilità e alla conflittualità della natura (pensiamo per esempio a Hobbes), finisce per amplificare e moltiplicare i motivi dell’incertezza. Le soluzioni che finora lo Stato sociale e assistenziale presumeva di poter garantire ai cittadini sono state scaricate sulla capacità dei singoli a trovare risposte individuali a problemi di ordine sociale ; e tuttavia il più delle volte tale capacità appare come una finzione, perché non ci sembra proprio di possedere la conoscenza e la potenza adeguate per far fronte ai pericoli e agli imprevisti della vita. E questo ha come esito «perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione». E quasi a suggello di questa breve storia dell’insicurezza moderna, Bauman conclude: «Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti».

Costantino Esposito, Meeting di Rimini, 23 agosto 2011

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Crisi finanziaria Disoccupazione Felicità fiducia Ricchezza Ripresa Rischi USA welfare

Dissolta come un miraggio nel deserto.

Dissolta come un miraggio nel deserto.

Il declino è anche sulle scoperte: “Paragonate gli anni Venti agli anni Novanta: nei primi, la scoperta dell’insulina e della penicillina, i vaccini per la tubercolosi, la difterite, il tetano. Nell’ultimo decennio del XX secolo? Il vaccino per l’epatite A e il Viagra”. Steyn racconta i “bamboccioni italiani, che in Giappone sono chiamati ‘parasaito shinguru’, i parassiti single, e in Inghilterra sono i ‘kippers’, figli a carico di genitori e che ne erodono i risparmi. In Canada il 31 per cento degli uomini fra i 25 e i 29 anni dorme ancora nel letto d’infanzia”. La crisi demografica è letta attraverso la demografia: “Il cinquanta per cento delle donne giapponesi è senza figli. Fra il 1990 e il 2000 la percentuale di donne spagnole senza figli è raddoppiata. In Svezia, Finlandia, Austria, Svizzera, Olanda e Inghilterra, il venti per cento delle donne quarantenni è senza figli. La coscienza europea collettiva promossa dall’Unione europea si è dissolta come un miraggio nel deserto. Non c’è Europa al di là della finzione ufficiale dell’élite eurocratica”.

Mark Steyn, in Giulio Meotti, Il Foglio 18 agosto 2011

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Crisi finanziaria Giuliano Ferrara welfare

Non c’è alcuna macelleria sociale.

Non c’è alcuna macelleria sociale.

Non c’è alcuna macelleria sociale nella manovra bis, espressione da depravati del primitivismo linguistico. Il welfare è ancora bello corposo e produttivo di un eccezionale livello di spesa pubblica e di dipendenza del cittadino dallo stato tutore. Sanità e pensioni sono sostanzialmente intonse, e Dio solo sa se l’età di uscita dal lavoro in Italia è scandalosamente lontana da parametri accettabili, e tutti sappiamo che la spesa sanitaria è una vergognosa macchina di sprechi e di devastazione della vera salute della gente, indotta a stazionare in corsia e in farmacia per paura di ammalarsi e di morire, mentre rinuncia a vivere (quand’è che ci decidiamo ad affamare i proprietari delle cliniche convenzionate che gonfiano i costi e gabellano lo stato e i cittadini e i pazienti?). Le Borse non hanno “bruciato” le immense ricchezze che si dice nell’informazione ansiosa e puttana, perché oscillano e si muovono in base anche a spinte speculative, nel breve termine ora bruciano e poi riaccendono, e comunque hanno recuperato il recuperabile nella settimana nera, bastavano il divieto di vendite allo scoperto e la controspinta rialzista dei ribassisti del giorno prima. L’economia cartacea nell’era del circuito mediatico-finanziario è molto imbrogliona. La finanza pubblica mastodontica in mano al governo, ai sindacati e alla Confindustria, è un modello italiano-europeo che fa sorridere i cinici mercati.
Giuliano Ferrara, Il Foglio, 16 agosto 2011

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Barack Obama PIL Ricchezza Ripresa USA welfare

I tagli non sono stati messi a punto da neurochirurghi, ma da macellai.

I tagli non sono stati messi a punto da neurochirurghi, ma da macellai.

Michelle Bachman, deputato del Tea Party

(..) il compromesso finale ha rispecchiato molto di più le posizioni iniziali e le preferenze dei membri del Tea Party rispetto a quelle dei democratici, della Casa Bianca o dei repubblicani moderati. Questo risultato conferma che niente di meno della vittoria completa, vale a dire ottenere assolutamente tutto ciò che avevano richiesto, avrebbe soddisfatto completamente i membri del Tea Party. In effetti, Michelle Bachman, uno dei leader più in vista, ha dichiarato chiaramente che l’accordo raggiunto all’ultimo minuto per evitare il default dell’economia più importante del mondo non è stato soddisfacente e che il default non era una minaccia che le avrebbe fatto cambiare idea.

Il Tea Party sta utilizzando una tattica di estorsione politica pura e semplice. I suoi leader e membri del Congresso hanno in mano un’arma potentissima, il veto, e sono disposti a usarla a meno che non vengano accolte tutte le loro richieste. I loro numeri non sono considerevoli, ma il loro stridente radicalismo, la disciplina e la disponibilità a gettarsi tra le fiamme, se ciò fosse necessario per ottenere quello che vogliono, sono gli elementi alla base dello sproporzionato potere di cui godono. L’accordo raggiunto non stimolerà la crescita economica, non stabilizzerà l’economia, non porrà rimedio alle disparità che si stanno rapidamente creando in termini di distribuzione del reddito che hanno caratterizzato l’economia statunitense negli ultimi anni, né produrranno gli investimenti pubblici di cui la superpotenza ha un così disperato bisogno per ammodernare ed espandere la propria infrastruttura.

I tagli alla spesa pubblica contenuti nell’accordo, un obiettivo per il quale c’è stato un ampio consenso, non sono stati messi a punto da neurochirurghi, ma da macellai. I tagli non sono strategici, non sono stati studiati in modo intelligente, né fanno parte di una visione più ampia sul futuro del Paese. Sono un’arma spuntata utilizzata per mettere il Governo alle strette, limitarne al massimo la capacità di espressione o addirittura, e per molti sarebbe un vero paradiso, farlo sparire in alcune aree.

Moises Naim, Il Sole 24 Ore, 4 agosto 2011

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Barack Obama PIL USA welfare

Né pompieri, né poliziotti: solo cowboy?

4. The validity of the public debt of the United States, authorized by law, including debts incurred for payment of pensions and bounties for services in suppressing insurrection or rebellion, shall not be questioned.

Così recita la quarta parte del XIV emendamento alla Costituzione Americana. Forse democratici e repubblicani stanno per raggiungere l’accordo -si dice a danno di Barack Obama- che consentirà agli Stati Uniti di continuare ad affermare che il debito degli Stati Uniti “non può essere messo in discussione“. Ma anche per chi, come me, crede fortemente al principio della sussidiarietà ed alla necessità di ridurre l’invadenza dello Stato centrale, riesce difficile digerire ciò che l’articolo dell’ottimo Mario Margiocco, sul Sole 24 Ore di venerdì ha bene illustrato: ovvero che la voragine pari al 140% del Pil USA è figlia di Ronald Reagan. Ho spesso visto il nome di quest’ultimo accoppiato a quello di Margaret Tatcher nella descrizione delle rivoluzione conservatrice ed innovatrice che negli anni Ottanta modificò così profondamente l’affronto della questione welfare, ma ricordo bene che la Tatcher fu molto più prudente (ed incisiva). Affamare la Bestia, tuttavia, non può significare soltanto tagliare le imposte, e Reagan, che trovò un rapporto fra deficit e Pil al 32%, se ne andò lasciandolo al 53%. Come riporta Margiocco, citando l’ex-ministro USA del Bilancio, David Stockman, “la rivoluzione reaganiana arrivava presto a essere un incauto esercizio di economia del pasto gratis. E presto, il gigantesco errore di politica fiscale che veniva scatenato a spese dell’economia nazionale e mondiale diventava insanabile“. Forse sarebbe ora di “rivisitare” l’eredità di Reagan, non solo in chiave culturale e di massima espressione della potenza imperiale americana, ma in chiave economica. La situazione, del resto, consiglierebbe anche di evitare troppo facili simpatie verso i Tea Party, dei quali il sito di Bloomberg sabato ricordava la silenziosa approvazione per la spesa pubblica nei “propri” distretti elettorali? Altrimenti si rischia, come hanno efficacemente sottolineato Perotti e Zingales, di continuare a preoccuparci di spegnere l’incendio, ma di lasciare i piromani andare a spasso indisturbati: e, oggettivamente, il movimento del Tea Party non sembra credibile né nella veste di pompiere, né in quella di poliziotto, i cui stipendi vanno peraltro pagati. Forse, in quella di cowboy?

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welfare

Welfare all’italiana.

Foto di famiglia, dalla rete.

L’aver spostato l’assistenza (dei bimbi, degli anziani, dei disoccupati) a carico delle famiglie, non ci ha consentito la costruzione di un Welfare «leggero»: il nostro Stato sociale è tutt’altro che leggero, costa oltre un quarto del reddito nazionale, più o meno come nel resto d’Europa.
Ma mentre negli altri Paesi l’assistenza alle famiglie rappresenta il 20% della spesa per il Welfare, in Italia è solo il 6%. Il nostro Welfare si limita
sostanzialmente a pagare pensioni.
Perché abbiamo fatto queste scelte? Le istituzioni di un Paese non sono casuali, bensì riflettono le preferenze dei cittadini. Agli italiani piace una società costruita in torno alla famiglia e nel tempo hanno creato istituzioni che consentono il perpetuarsi del ruolo centrale della famiglia.

Francesco Giavazzi, Il Corriere della Sera, 29 novembre

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Educazione Regno Unito welfare

Multikulti: una distante coabitazione.

My_beautiful_laundrette

Il sistema scolastico è essenziale. Quello pubblico inglese va cambiato. (..) Io credo nell’integrazione. Un immigrato deve assimilarsi alla realtà del Paese che lo ospita. Non funzionano tanti nuclei etnici costretti ad una distante coabitazione.

Kemi Adegoke, nigeriana, 29 anni, passaporto inglese, ingegnere.

Intervista a Leonardo Masiano, Il Sole 24Ore, 7 ottobre 2009