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Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

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La notizia comparsa sul Sole 24 Ore di oggi, che riporta il dato relativo al volume dei prestiti a medio-lungo (sostanzialmente triplicati a dicembre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) non può che rallegrare chiunque abbia a cuore il percorso di fuoriuscita dell’Italia dalla crisi e cerchi di cogliere i segnali di ripresa; segnali che non hanno mai cessato di manifestarsi anche in momenti meno recenti, ma che i dati, finalmente, confortano. Fino a non molti anni fa i prestiti a medio-lungo richiesti dalle imprese sarebbero stati destinati, con fin troppa facilità, ad acquisizioni immobiliari nella migliore delle ipotesi inutili, quando non dannose, perché distoglievano risorse e competenze dalla competitività, dalle strategie, dal mercato.

Leggere la notizia mi ha fatto pensare che se questa è la fotografia dal lato della domanda, non meno interessante sarebbe conoscere chi siano i protagonisti dal lato dell’offerta: ovvero, in un Paese banco-centrico come l’Italia, certamente le banche, ma quali banche? La domanda non è oziosa, né riconducibile ad un puntiglio accademico, ma ad alcune recenti esperienze di fidi “offerti”, in senso letterale, a grandi aziende che ne avrebbero fruito poco o nulla, da piccole banche, in particolare Bcc. Quelle stesse banche che dovrebbero sostenere la crescita delle Pmi, offrono prestiti ad aziende di grandi dimensioni, a tassi ultra-competitivi, verosimilmente con una marginalità nulla o ridottissima.

Perché?

Fino a non molti mesi fa, dialogando con chiunque mi fosse capitato nell’ambito delle banche locali, mi sarei sentito dire che il problema del credito era il credito deteriorato, “tanto nuovo credito non ne facciamo“. Il peso del credito deteriorato, prima ancora che un fardello economico, è divenuto un fardello culturale: per non sbagliare, meglio non fare nulla, ovvero il grillismo applicato al credito. Ma poiché qualcosa si deve fingere di fare, allora si eroga credito alle grandi imprese, anziché alle Pmi: perché è più facile e dunque meno costoso valutarle, perché sono meno rischiose, perché anche se guadagno poco, non si genereranno altre svalutazioni. Mi vengono in mente espressioni come miopia, mancanza di coraggio, visione di corto respiro, ma temo che sia molto peggio: temo che molte banche locali stiano pensando che, pur di sopravvivere, sia meglio venire meno alla propria vocazione. Questo fattore, molto più della riforma ormai avviata, rischia di cancellare la cooperazione di credito Italia; ma soprattutto rischia di cancellare un riferimento storico per il mondo delle Pmi, tuttora incapaci di comprendere cosa fare per ripartire e chi siano i loro interlocutori. Non è un problema tecnico, è un problema culturale, di visione, di consapevolezza. Proviamo a lavorarci?

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A proposito di bad bank…(pensiero stupendo).

A proposito di bad bank…(pensiero stupendo).

AC Milan's forward Mario Balotelli shows his jersey at the end of the Italian Serie A soccer match between FC Inter and AC Milan at Giuseppe Meazza Stadium in Milan, 13 Settembre 2015. ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO

Ci voleva il Derby per farmi tornare a comprare il Corriere della Sera del lunedì: l’unica cosa buona del tutto è stata ri-leggere il Corriere Economia, poiché il servizio nelle pagine di sport era assai insulso ed il commento dimenticabile. Molto meglio il pretoriano-morattiano Fabio Monti, ma tant’è…

Detto del Derby, Fabrizio Massaro (omen nomen?) mi fa compagnia in una cena solitaria di #turismofinanziario e mi fa riflettere sulla bad bank, l’oscuro oggetto del desiderio di molte banche. Il meccanismo è noto, ma lo ripeto a beneficio dei miei piccoli (studenti) lettori: una società-veicolo compra i crediti non performing (o NPL) dalle banche, liberando i bilanci delle stesse dall’ingombrante presenza del credito deteriorato. Le banche incamerano qualche spicciolo, la differenza tra valore di libro del credito e valore di mercato sono perdite. Hic sunt leones. Una bad bank fatta per salvare un intermediario creditizio dai suoi crediti deteriorati compra i crediti ad un valore superiore a quello di mercato e le perdite gravano in misura minima sui bilanci bancari: in Italia è già successo con il Banco di Napoli, le perdite le abbiamo pagate tutti. Ma non c’erano gli euri, la disciplina degli aiuti di Stato era meno stringente e tante altre belle (?) cose. Ora non è più così: e se la bad bank dovesse essere varata, anche con il favore della UE, resterebbe a carico del contribuente l’onere dell’operazione. Meditare necesse est.

Solo un piccolo particolare: il buon Massaro giustamente parla nel suo articolo dei problemi legati alla giustizia civile ed alla lunghezza dei relativi processi (nonché delle esecuzioni, immobiliari e non), oltre che della natura dei crediti deteriorati, a suo dire più facili da stimare se di natura immobiliare e più complessi se relativi ad imprese. Trascurando, almeno all’apparenza che, con buona pace di chi oggi criticava Orfini su Twitter, le banche usano i soldi dei risparmiatori e devono applicare i criteri di “sana e prudente gestione“: ovvero, non solo non c’è banca al mondo che non richieda le garanzie ma, soprattutto in Italia, le garanzie hanno supplito al deficit di tecnica bancaria per fare prestiti a tutti, imprese soprattutto comprese. Fatta la bad bank ed eliminate le scorie nucleari degli NPL, chi impedirà alle banche di continuare a fare cattivo credito? Non la vigilanza europea, non allo stato degli atti: e, vista la devastazione operata dall’inizio della crisi, non la Banca d’Italia. Pensiero stupendo, nasce un poco strisciando: la bad bank incentiva l’azzardo morale e toglie le castagne dal fuoco. Alla Banca d’Italia.

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Pensieri improvvisi

Pensieri improvvisi

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Mi capita di parlare con un conoscente, un ex-imprenditore edile marchigiano finito nel tritacarne della crisi, della bolla immobiliare e di scelte sbagliate, per investimenti fatti a debito, crescita disordinata e altre amenità. Mentre parliamo mi dice che è contento perché il Tribunale ha approvato il concordato (non in bianco, ad onor del vero, ma con qualche contenuto, a differenza di molte situazioni aziendali che mi capita di vedere ultimamente) e che il Giudice è stato molto severo: chiude dicendo che “probabilmente avranno capito che se li fanno fallire tutti non si può più andare avanti“. Il personaggio in questione è stato vice-presidente di un’associazione di categoria assai importante, ha rivestito cariche a Roma: il che non gli impedisce, al netto degli sconti per l’emotività e per il dramma vissuto, di dire sciocchezze davvero sesquipedali. La bancarotta governata dalla legge fallimentare, nelle sue varie forme, è un meccanismo di mercato, come tutti i meccanismi ampiamente rivedibile e migliorabile, ma che serve al mercato per fare il suo mestiere, ovvero quello di premiare chi è competitivo ed espellere chi è inefficiente. Non lo si può invocare per gli altri, immaginando che la propria virtù (presunta) generi eccezioni. Ma, soprattutto, non si può pensare che tenere in vita degli zombie (a me piacciono di più i vampiri) li faccia tornare uomini. Essere dei non-morti non significa essere vivi. Tenere in vita imprese decotte aggrava i problemi (ricordarsi la famigerata GEPI).

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La misurazione del rischio di credito (quello che le imprese non sanno).

La misurazione del rischio di credito (quello che le imprese non sanno).

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Per ragioni di orari di fine lavoro mi capita raramente di ascoltare Sebastiano Barisoni, su Radio 24, di cui è peraltro vice-direttore, quando conduce Focus Economia (mentre cerco di non perdermi mai la Zanzara, di Cruciani e Parenzo).
Mi colpiva, perlomeno fino a qualche mese fa, la pervicace ostinazione con la quale il giornalista insisteva nella demonizzazione di Basilea 3 e delle sue regole, con l’ovvia argomentazione che il tutto avrebbe condotto al credit crunch e che non se ne sentiva proprio la mancanza. In buona sostanza, e non me ne voglia il giornalista per la semplificazione, le imprese soffrono, soffrono per colpa delle banche che non danno più credito –oltre che, ovviamente, dello Stato che non paga- e poiché le colpe della crisi sono attribuite alle banche, bisogna in qualche modo risarcire l’impresa, in un solo modo: concedendole più credito.
La conclusione di tanti dibattiti, interviste, discussioni e articolesse, d’altra parte, non è mai stata, perlomeno da parte imprenditoriale, la pronuncia di una qualche forma di autocritica; anche quando si parla di bolla immobiliare (e non c’è crisi d’impresa che il sottoscritto abbia visto in questi anni che non sia stata condita, prima, durante o dopo, da una qualche idiozia immobiliare) la colpa è stata delle banche che l’hanno foraggiata, a mo’ di pusher.
Se questo è il mainstream, non ci si deve stupire se la completa applicazione delle regole che impongono alle banche un orientamento maggiormente conservativo e basato sul privilegiare il rafforzamento del capitale e la liquidità a scapito della redditività sia progressivamente slittata, grazie all’azione delle lobbies bancarie e imprenditoriali, fino al 2020.
Ciò che invece continua a stupirmi (che avesse ragione il mio Maestro Attilio Giampaoli quando mi definiva “illuso”?) è il vuoto pneumatico che circonda la già attuale, in quanto già operativa, applicazione di regole riguardanti il processo del credito, e che vale sommariamente la pena di esaminare. È bene rammentare, al riguardo, che la prima volta che Banca d’Italia si è occupata di merito di credito è stato nel 1998, tra l’altro indirettamente, ovvero parlando di controlli successivi e non della valutazione ex-ante. Da allora, e fino a luglio 2013, silenzio e vuoto. Poi, esattamente un anno fa, escono tre capitoli che aggiornano la Circolare 263 del 2006 (la Bibbia regolamentare in materia) e che, soprattutto, modificano radicalmente il panorama delle istruttorie.
E dunque, madamine, il catalogo del processo del credito è questo (la dicitura “nuovo” tra parentesi identifica le aggiunte dell’anno scorso):
• misurazione del rischio (nuovo);
• istruttoria;
• erogazione;
• controllo andamentale e monitoraggio delle esposizioni (nuovo);
• revisione delle linee di credito;
• classificazione delle posizioni di rischio (nuovo);
• interventi in caso di anomalia;
• criteri di classificazione, valutazione e gestione delle esposizioni deteriorate (nuovo).

Non può sfuggire, anche senza svolgere l’esegesi del testo, che la sottolineatura riguardante la misurazione del rischio, inserita al primo posto di tutto il processo del credito, mette in fuorigioco sia tutti coloro che continuavano a pensare che, alla fine, contassero sempre e soltanto le garanzie (molte imprese continuano a rapportarsi con gli istituti di credito con la stanca ed abusata frase: ”Ma cosa vuoi da me, ti ho pur dato le garanzie?”), compresi i somari che se le sono comprate a debito, sia tutti gli addetti fidi –e i consiglieri di amministrazione- abituati a far leva sui criteri della storicità del rapporto, della conoscenza personale, degli indici di liquidità, del famigerato grado di capitalizzazione.
La misurazione del rischio impone, infatti, la definizione del rischio e la sua oggettivazione (chissà cosa direbbe Barisoni al riguardo…), ovvero il suo ancoraggio a parametri certi: e poiché la capacità restitutiva poggia sulla capacità di reddito, è proprio sulla verifica dell’esistenza di quest’ultimo che occorre insistere, attraverso la misurazione
1. della consistenza del risultato operativo e della sua variabilità/volatilità nel tempo (il rischio, appunto);
2. della capacità del risultato della gestione tipica di coprire gli oneri finanziari, secondo i ben noti parametri (se gli oneri finanziari superano il 75% del risultato operativo e quindi fai fatica a pagare gli interessi, come potrai rimborsare il capitale?);
3. del rapporto tra debiti finanziari e Mol, al fine di misurare, attraverso il moltiplicatore, se si sia raggiunto oppure no il valore/merito di credito, ovvero l’ammontare massimo di fidi concedibile ad un’impresa (se il Mol sta 10 volte dentro i debiti, di cosa stiamo parlando?);
4. infine, se c’è reddito, può esserci anche cassa (si chiama autofinanziamento, ovvero cash flow rettificato dalla variazione del circolante, altro che indici di liquidità: altrimenti, si sta parlando del nulla).
Detto questo, e per non annoiare i miei piccoli lettori, rimane, per ora, da ricordare che il credito, subito dopo essere stato erogato, va monitorato, e non in base a criteri soggettivi, ma oggettivi: e che la stessa istruttoria di primo affidamento diventa sempre più cruciale e decisiva, poiché lo scopo, come ricorda il regolatore, è l’applicazione di criteri di sana e prudente gestione.
Quindi, forse e finalmente, le banche non finanzieranno più le idee (nuovi tabacchini, nuovi bar, nuovi ristoranti, nuovi alberghi, nuovi immobili, nuovi esercizi commerciali)?
Non ci giurerei, ma sarebbe già un buon inizio che le imprese –e soprattutto le loro associazioni di categoria ed i professionisti che le assistono- cominciassero a chiedersi cosa si può fare e cosa non si può fare a debito: e che le banche non si sostituissero impropriamente al mercato, mantenendo in vita zombies, ma lo facessero lavorare.
Ne riparliamo.

(segue).

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ABI Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Bolla immobiliare Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Vigilanza bancaria

Alibi.

Alibi.

Matteo_Renzi Matteo Renzi mi piace. Alle “prime” primarie, quelle dove perse con Bersani, lo votai pure. Mi piace quel che dice, avverto sintonia con gran parte dei suoi intendimenti, potrei pure rivotarlo alle politiche. Premesso che il Presidente del Consiglio non necessita dei miei inutili endorsement, quella frase sulle “banche che non hanno più alibi” continua a farmi pensare. Mi fa pensare perché mi sarei aspettato che Confindustria la cavalcasse immantinente, mentre Squinzi si è messo a dire che le imprese hanno salvato l’Italia. Gli ri-chiedo (l’ho già fatto retoricamente su twitter): quali? Quelle che hanno comprato il terzo capannone mentre ne avevano già due anzichè investire in tecnologia? Quelle che si lamentano dello Stato che non paga e poi però tengono i trentenni come co.co.pro. per anni? Forse Squinzi non è interessato. L’ABI, allora: forse l’ABI, per bocca del suo ineffabile presidente Patuelli o di qualcun altro. No, l’ABI ci ha tenuto a far sapere che la domanda di mutui è in ripresa: non sappiamo per comprare cosa, probabilmente “garanzie” che nel frattempo si sono certamente ri-valutate e che così diventano di nuovo liquide. All’ABI di Renzi non interessa. La Banca d’Italia? La relazione del Governatore è stata una delle più modeste degli ultimi anni, persino umiliante per il prestigio dell’Istituto quando afferma che gli interventi effettuati per crisi bancarie riguardano l’1% del mercato. Alla Banca d’Italia, a quanto pare, importa la corretta “classificazione a voce propria”, ovvero che gli incagli siano chiamati col loro nome e così le sofferenze. Non importa la cura per il credito deteriorato, ma che la febbre sia ben misurata.

L’impressione è che la frase del Presidente del Consiglio, certamente scaltra sotto il profilo politico e del consenso, sia caduta in una sorta di terra di nessuno. Una no man’s land sospesa da una parte tra banche (purtroppo e soprattutto locali) che ancora oggi dicono di voler portare a casa ricavi da servizi ma non facendo consulenza alle Pmi sulla gestione del fabbisogno, bensì vendendo polizze, carte di credito e fondi di investimento (e il margine di interesse? e la remunerazione della raccolta? e il fare banca per davvero?) E dall’altra tra imprenditori -o presunti tali- che continuano a chiedere denari per aprire bar, tabacchini, pubblici esercizi, edicole, ed altre ignobilia del terziario arretrato. Senza mai mettere un soldo. Senza calli nelle mani, mai, neppure in prospettiva. Oppure rinviando l’affronto dei problemi, quasi sempre economici e mai finanziari, come ormai accade da 7 anni.

Le banche non hanno più alibi. Ma a quanto pare, hanno molti complici.

 

 

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Alessandro Berti Bolla immobiliare Crisi finanziaria fiducia PMI

Con parte monografica sulle cooperative.

Con parte monografica sulle cooperative.

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Quando mi iscrissi al primo anno di Economia e Commercio in Cattolica, nel lontano 1976, scelsi per il piano di studi il corso di Economia Aziendale tenuto dal prof.Manzonetto, che conteneva una parte monografica sulle cooperative. Non avevo ragioni particolari per scegliere proprio quel docente, ma mi piaceva l’argomento: ed anche se era condiviso con gli studenti del serale (e quindi andavamo a casa tardi), mi sembrava che dare rilievo alla cooperazione fosse importante, mi corrispondesse e, in qualche modo, facesse parte dei miei valori.

Non ho capito bene fino in fondo il perchè di quella scelta se non 38 anni dopo, ovvero due giorni fa, parlando al CdA di una piccola (piccola? con 6 milioni di fatturato e punti vendita solo in montagna sei davvero piccola?) Famiglia Cooperativa Trentina, ai confini del Parco Nazionale dello Stelvio. Ora, a parte il paesaggio, che da solo sarebbe valsa la fatica, l’esperienza di parlare e, soprattutto, di conoscere queste persone

IMG_0292è stata straordinaria. Prima di tutto perché dovevo cercare di spiegare l’equilibrio economico-finanziario a gestori di rifugi alpini, insegnanti di scuola media, madri e padri di famiglia senza alcuna esperienza imprenditoriale, che facevano e fanno gli amministratori per pura gratuità ed amore del territorio. E questa sfida già sarebbe valsa la pena, perché vuol dire uscire dagli schemi.

Ma in secondo luogo l’esperienza è stata straordinaria per quello che ho imparato. A parte la cordialità, l’accoglienza e il clima, queste persone mi hanno mostrato cosa si può fare quando si ha a cuore l’obiettivo ed è chiaro il senso: aspettando di cominciare leggevo gli avvisi appesi in bacheca e in uno di questi si parla di social housing. Mi chiedo perché e, subito dopo, lo domando ai presenti. Contro ogni evidenza di ricerca di facile profitto e di scelte analoghe compiute, anche da consorelle, e nonostante le critiche ricevute, la Cooperativa ha sistemato l’immobile dismesso della propria vecchia sede, che poteva pur vendere tentando di lucrare plusvalenze (magari costruendo una costosissima ed inutile nuova sede), per affittarlo a canone calmierato, alle famiglie bisognose del territorio. Abbastanza inaudito: come inaudito è scoprire che la Famiglia Cooperativa in questione tiene aperti negozi di prossimità in luoghi dove la logica della redditività imporrebbe di chiudere, per servire il territorio. Evidentemente riuscendo, con la propria struttura di costi e ricavi, a rendere sostenibile un’iniziativa che, secondo criteri normali, sarebbe priva di senso e di logica. Lo dicono i bilanci, sostanzialmente privi di debiti bancari: e lo dicono, soprattutto, le facce e le opere di quelle persone. Spero di rivederli presto.

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Il grande freddo (che non sia tutta colpa delle banche?)..

Il grande freddo (che non sia tutta colpa delle banche?).

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Dal 2000 a fine 2012 la quantità di credito erogato dalle banche italiane all’economia è raddoppiata. Nello stesso periodo gli investimenti delle aziende sono aumentati di un misero 15% e il fatturato ancora meno. La produzione industriale, invece, dal 2000 al 2012 è diminuita del 20%.” Così Morya Longo su Il Sole 24 Ore  (leggi su http://24o.it/WrfhO). Che non sia tutta colpa delle banche? Gli investimenti immobiliari quanta parte hanno in quel peraltro misero 15%? Una così ampia divergenza tra l’incremento degli investimenti, anche al netto del giudizio “misero“, e la riduzione della produzione industriale fa pensare che la parte del leone l’abbiano fatta proprio quei capannoni che ora, tutti allineati come soldati napoleonici, si ritirano dalla Russia inutilmente invasa. Forse sarebbe il caso di cominciare a dire che c’è qualcosa nella mentalità-cultura imprenditoriale italiana che è da rivedere, quello stesso qualcosa che ha portato negli anni scorsi a pensare che la via più breve per sistemare sè stessi e l’azienda era investire nell’immobiliare, dimenticando tecnologia, marketing, processo e prodotto. Problema culturale, in quanto problema valoriale, ossia di quel che metto al primo posto, che mi guida nell’agire quotidiano, che mi indirizza nelle scelte. E non c’è stato un solo presidente di Confindustria che si sia mai fatto carico appena lontanamente del problema (se Marcegaglia è stata inutile, non parliamo del rossonero Mapei), è ben difficile immaginare che lo possa fare un qualunque governo, compreso il futuribile Renzi. Dunque la palla è nel campo di tutti coloro che hanno a cuore, per lavoro o per passione, il tema delle relazioni di clientela: perché se non si può fare a meno delle banche per finanziare lo sviluppo, non si può davvero chiedere loro di sostituirsi agli imprenditori. Resta solo un dubbio: s’agit-il d’un trop vaste programme?

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Cliente sperimentato (favorevolmente).

Cliente sperimentato (favorevolmente).

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Apprendo che Thohir avrebbe comprato la beneamata nonostante i debiti, confidando nella credibilità acquisita presso le banche orientali che da tempo seguono il suo gruppo e con l’idea di ri-negoziare (leggi: consolidare) i debiti finanziari, che in indonesiano si dice Konsolidasi utang. Non so come si facciano le istruttorie di fido in indonesiano, ma ho idea che ci abbiano scritto qualcosa che assomiglia molto all’ultima variante di  “cliente storico” che ho sentito settimana scorsa durante un master, ovvero “cliente sperimentato”. Immagino che ci sia anche un bel business plan, secondo le best practices anglosassoni trapiantate in Oriente. Intanto Hernanes ce lo siamo comprati con i soldi del titolare (articolo in partita doppia: banche a titolare conto versamenti) a dimostrazione che in attesa di fare soldi con il brand, le squadre di calcio vanno avanti a debiti ed iniezioni.

Un’ultima cosa: pare che ci sia un raffreddamento sulla costruzione dello stadio di proprietà, e non posso che rallegrarmene se oltretutto ciò significa riqualificare il Meazza (Luci a San Siro l’ha scritta Vecchioni, qualche cantautore milanista potrebbe al più scrivere Una sera da Giannino). La seconda squadra di Milano ha fatto la sede nuova ma, a quanto pare, il gioco non è migliorato: d’altra parte, lo stadio di proprietà è così decisivo che in Gran Bretagna tutte le squadre hanno la stadio di proprietà, ma gli scudetti li vincono sempre gli stessi. Si chiama “robusta correlazione statistica” dell’evidenza empirica riguardo al legame tra immobili e business.

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Gli immobili si (s)valutano sempre (di più).

Gli immobili si (s)valutano sempre (di più).

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Incontro un amico e parliamo di vita e di cose materiali, di come va la sua attività e come funzionano gli affari. Mi dice “male, non riesco a vendere i miei appartamenti e non voglio più affittarli“. Approfondisco e scopro che non li ha mai comprati, sono ereditati, dunque il valore di carico è zero: come mi fa notare mio figlio, non per caso revisore, non si sono minusvalenze che rovineranno bilanci, c’è solo da far cassa. Eppure la risposta alle mie obiezioni è quella standard (forse dettata da Confedilizia?): “sì, ma non possiamo nemmeno svendere“. Per svendere bisogna avere un parametro di riferimento in testa, ed in questo caso non è neppure il costo, no; è il sospirato valore di mercato, quello di 6 o 7 anni fa. Ci lasciamo sulla mia conclusione: “Gli immobili, a stare lì, si svalutano da soli.” Non gli è piaciuta.

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Alessandro Berti Bolla immobiliare

Disordine e regresso, Favela Chic (Riministan).

Disordine e regresso, Favela Chic (Riministan).

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Questa mattina decido di mettermi alla prova su una distanza più lunga nelle mie performance di romagnolo-walking e compio i 18,2 km tra Rimini e Riccione e ritorno in 2h e 48′ (pulsante applausi dalla regìa). Percorro dapprima il lungomare di Rimini e fino al Marano (un orrido fiume, in un orrido luogo, dove tuttavia i locali all’aperto impazzano con musica et alio tutta l’estate, richiamando orde di emiliani, bolognesi in specie, che sembrano non cercare altro) non incontro altro che stranieri. Russi che passeggiano, indiani, pachistani, qualche cinese che gestisce (?) negozi di infimo ordine, dove si vendono, al freddo e con gli espositori sulla strada, articoli di infimo ordine. I primi italiani li incontro oltrepassato il Marano, poi a Riccione cambia tutto. Bisogna andare a piedi, anche se a velocità sostenuta, per notarlo: cambia lo stile degli edifici, non ci sono locali di infimo ordine (certo, mi dicono, saranno da un’altra parte), ma l’impressione è la stessa di quando a Londra passi da una zona Londonistan ad una zona british. Il problema non è che ci sia un Riministan, che non pare oltretutto somigliare al suo preoccupante omologo britannico. Il problema è, molto semplicemente, il significato in termini economici e di offerta turistica: un’offerta turistica sempre più al ribasso coinvolge tutto, qualunque cosa intorno a sè, generando una sorta di distretto della mediocrità e dell’approssimazione. Ed è proprio nel Riministan che, d’altra parte, giganteggiano gli scheletri degli edifici delle colonie, taluni bellissimi, ma tutti tetri nel loro abbandono. Perché non c’è amministrazione che non abbia bloccato qualunque progetto che non passasse dal partito secondo regolamento. Ho sentito che a Milano, nel quartier Isola, dove abita una mia conoscente assai snob, si sono lamentati della skyline delle nuove realizzazioni edilizie. Chissà se vorrebbero fare cambio con una skyline dove troneggia -zona Marano- un locale la cui insegna (cattivo gusto? idiozia del pubblicitario?) è, esattamente “Disordine e regresso. Favela Chic”?