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Banche fiducia PMI USA Vigilanza bancaria

I molteplici mestieri di una banca “regionale”.

Quando non capisci cosa fa esattamente una banca o un’impresa io ho sempre fatto una sola cosa: sono andato a vedere i conti. Il sito di Silicon Valley Bank fornisce informazioni per la verità assai scarne, pur sempre migliori di quanto non forniscono i siti di molte società italiane, che hanno il malcostume di non depositare i bilanci e pagare una sanzione amministrativa pur di non mostrare i conti alla concorrenza.

Detto ciò, nell’illustrazione dei conti stessi*, SVB è presentata così: U.S. venture-backed technology and life science companies bank with SVB. Yahoo finance la presenta come una banca privata ma, soprattutto, come investment bank e già qui si comincia a capire che qualcosa non va se una banca regionale o di deposito fa la banca di investimento (leggendo nel sito fa molti mestieri, tutti la cerca(va)no, tutti la vo(levano)gliono.

Il totale della raccolta presso la clientela al 31.12.22 è pari a 342 miliardi di $, con prestiti che ammontano a soli 74 miliardi di dollari (poco meno del 20% della raccolta) mentre i cosiddetti assets, parola misteriosa dietro la quale si può celare la qualunque, ammontano a ben 212 miliardi di $ (pari al 62% della raccolta). Parrebbe la re-incarnazione di ciò che in Italia e in Europa non è più possibile fare (e che a Bancaria non si spiega più), ovvero la trasformazione dei rischi e delle scadenze. Non si potrebbe fare nemmeno negli States, che aderiscono agli accordi di Basilea ma che probabilmente vi aderiscono come a una bocciofila.

La domanda è: che cosa sono quei 212 miliardi di dollari di assets se questa è una banca che serve la start-up?? Quanto rischio è insito in quella voce e quanto di esso è stato coperto da capitale? A quanto pare poco, se è vera la vulgata (ma lo sa solo la FED e non lo dirà certamente a noi, per non perdere il capitale reputazione invero assai modesto in termini di Vigilanza), si trattava di titoli a tasso fisso che in caso di rialzo dei tassi si deprezzano: già, ma quali titoli?

E se solo il 20% della raccolta è destinata a prestiti come fai a definirti banca regionale, al servizio delle start-up? L’unica cosa che fai per le start-up, a parte il 44% delle IPO U.S. venture-backed technology and healthcare in 2022, è raccogliere i loro conti correnti, i loro depositi, i loro risparmi. Insomma fai la banca di deposito: che noia, che barba, che noia, sembra una qualunque BCC, con rispetto parlando. E invece rischi assai: vuoi trasformare i rischi e le scadenze, facendo contemporaneamente corporate finance e una quantità di altri mestieri che non ti si addicono, se non per la location.

C’è qualcuno che dovrebbe impedirtelo? Sì, la FED: ma il genio trumpiano ha fatto approvare una legge con requisiti patrimoniali meno stringenti proprio per questo genere di banche, legge bipartisan approvata all’unanimità.

Cherchez l’argent.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Mario Draghi PMI

E la chiamano estate.

E la chiamano estate, questa estate senza te. Senza Mario Draghi, che rimane la governo per il disbrigo degli affari correnti, senza quel buon senso e quell’operosità che pareva aver preso la politica italiana da oltre un anno e che stava dando i risultati sperati, quelli che ogni cittadino sa che servono per il bene comune, se il bene comune è ancora un concetto civico dotato di valore.

Non voglio e non oso pensare a un Governo guidato dall’attuale leader dell’opposizione, ma i segnali non sono confortanti: e sono anche segnali di disimpegno di quel mondo bancario, quello che teoricamente dovrebbe essere maggiormente vicino alle PMI, che si preoccupa più della quantità che della qualità. Nel mentre a una micro-impresa si richiede un business plan per l’anno prossimo da parte di una grande banca di interesse nazionale, altri istituti decidono che si deve lavorare a tutti i costi e che per lavorare bisogna abbassare l’asticella: della qualità delle informazioni finanziarie e quindi della comunicazione finanziaria, della possibilità di instaurare un rapporto banca-impresa finalmente serio e concreto, basato su dati reali e su una relazione aperta, sincera, trasparente, evidentemente non importa a chi è preoccupato solo del giorno per giorno e, udite udite, spinge sulla rete per la vendita delle polizze.

E’ un’estate triste, ma l’autunno potrebbe essere peggio. questo blog si prende una pausa, anche se interventi, dibattiti, opinioni diverse saranno sempre bene accolte. Se scrivete, in altre parole, qualcuno vi risponderà. Una cosa si può dire, sulla quale posso assicurarvi il massimo impegno: di fronte a tutto questo si può solo lavorare bene, sapendo che, fino a quando non hai fatto tutto, non hai fatto niente.

Buona estate.

J.M.

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ABI Banche Crisi finanziaria Imprese Indebitamento delle imprese informazione PMI Relazioni di clientela

Piani (?) di rientro.

Piani (?) di rientro.

Sul Sole 24Ore di lunedì 23 maggio, un articolo a firma di Sandro Feole prende in esame i temi suscitati dal dibattito sull’iter negoziato per la composizione delle crisi d’impresa introdotto dal Dl 118/2021. Il tema è certamente scottante e riguarda le garanzie rilasciate da SACE e MCC che, una volta escusse, godrebbero del privilegio generale ex art.8 bis del Dl 3/2015, al contrario delle offerte transattive formulate alle banche, da considerarsi chirografe. Per avere un ordine di grandezza della questione, di parla di oltre 200 miliardi di € di crediti concessi a una platea di micro e Pmi di circa 2,5 mln di soggetti.

Nel regolamento a suo tempo emanato dal Ministero per lo sviluppo economico, in tema di procedura telematica che la banca può attivare per escutere le garanzie, si afferma che la stessa non può essere attivata se l’impresa non offre almeno il 15% di quanto dovuto: difficile non pensare alla miriade di concordati in bianco, dove le percentuali sono, nei fatti, di qualche decimale superiori allo zero. 

Come giustamente ricorda l’articolista la scelta spetta all’istituto di credito, che dovrà valutare la convenienza alternativa tra liquidazione e diniego, sbarrando la strada all’accordo e aprendo la strada alla procedura concorsuale più penalizzante e certamente non voluta dal legislatore, il fallimento.

Giustamente, tutta la legislazione recente in tema di crisi d’impresa cerca di garantire la continuità aziendale, ritenuta ormai “scopo primario” se non ultimo, delle procedure concorsuali, superando la vecchia concezione liquidatoria della par condicio creditorum: le modifiche del CCII propongono, d’altra parte, un termine di due anni per i piani di rientro. 

La questione proposta da Feole in finale dell’articolo è, tuttavia, “la questione”: usare gli stand still già proposti dalle banche, a patto che siano compatibili con le classificazioni a UTP o NPL. Qui rientra o, se si vuole, cade l’asino di tutta la vicenda: sulla base di quali presupposti analitici, previsioni basate su assumptions ragionevoli le banche faranno tali valutazioni, posto che a tutt’oggi risulta faticoso ottenere (forse ancora di più: decidere di chiedere!) un business plan a imprese in bonis? Ricordando, in maniera del tutto incidentale che siamo di fronte a una UTP ogni volta che l’impresa non è in grado di rimborsare le proprie obbligazioni passive se non attraverso l’escussione delle garanzie. Valutazione, ricordiamolo, lasciata alla discrezionalità della banca, a norma EBA, anche per i debiti in moratoria. Message in a bottle da un amico di un ufficio fidi, grossa banca del Nord-Est: “Ci chiedono la valutazione del DSCR prospettico 2022 (!) ma qui è già tanto che ci abbiano mandato i bilanci 2020”.

Tante care cose.

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Agnelli Alessandro Berti Banche Imprese

Capitani coraggiosi (e garantiti).

Capitani coraggiosi (e garantiti).
“Discussions with state-owned credit insurer Sace SpA are ongoing for a guarantee over at least part of the amount, and there’s no certainty the parties will reach an agreement on the financing, they said. A Rome-based spokesman for Telecom Italia declined to comment. A spokesman for Sace wasn’t immediately available for comment. A new loan backed by Sace would help Telecom Italia boost its reserves after it booked an 8.6 billion-euro fourth-quarter loss because of impairments and avoid possible future downgrades. The company has been struggling for years from high indebtedness amid fierce competition in Italy’s telecoms sector.”
Così Daniele Lepido e Giulia Morpurgo su Bloomberg del 20 aprile u.s. riguardo alla richiesta di Telecom Italia spa circa una richiesta di 3,3 miliardi di euro di “facilitazioni” bancarie da garantirsi da parte di Sace spa.
Così termina la storia di una cash-cow, scalata a debito nel secolo scorso da Colaninno and co., ovvero da “capitani coraggiosi” (copyright Massimo D’Alema), talmente coraggiosi che il debito, come nelle più squallide e manualistiche storie di LBO, non solo è stato addossato alla target, ma la stessa si dibatte da anni nell’eccessivo indebitamento. Termina con una richiesta di fido garantita dallo Stato, come un ingrosso di casalinghi o una falegnameria qualunque, con rispetto parlando per le PMI.
Come finirà? Non finirà male, Telecom Italia è too big to fail, e poi mai come in questo caso varrebbe lo strumento della golden share in mano al governo per impedire che la Società cada in mani straniere; non è una storia da PNRR ma lo Stato ci metterà una pezza. Bene, ma non benissimo; forse male, per lo Stato, per il bilancio che viene fatto con i nostri redditi tassati assai.
Come è cominciata? Male per lo Stato, che ha fatto una privatizzazione, all’epoca, che definire “della mutua” sarebbe persino un eufemismo. Per chi ha memoria storica, quello che ne sortì fu un “nocciolino duro” che controllava l’allora monopolista delle telecomunicazioni con il 6% del capitale; e sempre scorrendo negli annali, si troveranno i nomi dei soliti noti, Agnelli, banche & Mediobanca, protagonisti, da una parte o dall’altra della vicenda. Duole ricordare che Tronchetti Provera, all’epoca, accortosi di avere acquisito il controllo a prezzi di gioielleria da Colaninno, trovò conforto nel Governo di Romano Prodi che, volonterosamente, gli diede una mano.
Visto che finisce a schifìo, almeno proviamo a trarne una morale: quando sovrainvesti a debito (Colaninno) o sei molto scaltro (e l’advisor era Mediobanca) oppure ti rimane in mano il debito e non riesci a pagarlo. Sovrainvestimento=sovraindebitamento, come insegno ancora nelle aule, il debito diventa insostenibile.
Allora non si presentavano le tabelle prospettiche sul rapporto PFN/Ebitda o sull’andamento futuro del DSCR -a quanto pare neppure adesso perché “già il credito rende poco, se poi dobbiamo perdere tutto quel tempo a chiedere i business plan”-; chissà cosa si presentava, bisognerebbe chiederlo agli advisor di Colaninno, che tutto era tranne che coraggioso, nel senso che D’Alema volle dare all’aggettivo. Era geniale, questo sì, ma aveva un bel paracadute, forse più di uno. Probabilmente era una operazione su cui la Borsa ha voluto scommettere, il sentiment degli operatori era positivo, chi si sarebbe messo di traverso. Sic transit gloria mundi, ormai della scalata del secolo scorso non si ricorda più nessuno. Se vi ho annoiato, non s’è fatto apposta.

P.S.: Telecom Italia è too big to fail anche perché i tribunali italiani hanno “riscoperto” il reato di ricorso abusivo al credito e l’illecito della concessione abusiva di credito.
Per gli altri, buon divertimento.

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Alessandro Berti Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Unicredit

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).

Andrea Orcel, Ceo Unicredit Group spa.

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).
Il CEO di Unicredit, Orcel, ha presentato ieri, 9 dicembre, il piano industriale della banca da lui guidata, dove secondo Alessandro Graziani, de IlSole24Ore, “archivia l’era del derisking, e torna a puntare sulla crescita delle attività, anche in Italia”.
Naturalmente, e non potrebbe essere altrimenti, si parla anche di redditività sostenibile, di mantenimento di solidi ratios patrimoniali, di rischio ragionato. Per il resto, molto in sintesi, il piano parla di un aumento dei ricavi da commissioni (difficile non chiedersi fino a quando la clientela sarà disposta ad accettare aumenti indiscriminati senza cominciare a guardarsi in giro e chiedere a qualche banca on line o simili tariffari più concorrenziali) ma anche di un aumento del volume dei crediti che, tuttavia, privilegerà il consumer finance al fine di non fare crescere l’RWA.
Insomma, “Pedro, adelante con juicio”, come fa dire il Manzoni al cocchiere spagnolo del Cancelliere.
Il piano è stato festeggiato dalla Borsa, anche perché annuncia un aumento di oltre il 30% della remunerazione da assegnare agli azionisti, tra buy-back e dividendi, anche se, a detta del cronista, il vero punto forte sarebbe la digitalizzazione, con la creazione di due fabbriche prodotto centralizzate (Corporate e Individual solutions) e la realizzazione di ampie economie di scala.
Unicredit resta fedele alla sua vocazione, quella di grande banca di transazione: non è mai stata una banca di relazione, con il piano industriale presentato ieri, coerentemente con quanto realizzato dai predecessori, punta alla creazione di valore, tentando di volta in volta di cavalcare l’onda migliore (allora, con Profumo, fu la crescita in Europa per linee esterne, con Jean Pierre Mustier quella di vendere i gioielli di famiglia e fare cassa etc…).
La lettura del piano industriale e il senso nemmeno troppo sottile che lo pervade, tuttavia, non possono lasciare indifferenti perché, come spesso ci è capitato di ripetere, nel rapporto banca-impresa occorre scegliere e farsi scegliere, perché ogni impresa è diversa dalle altre e perché le banche non sono fornitrici indifferenziate di denaro, come una facile pubblicistica e certo ceto professionale e imprenditoriale vorrebbero fare credere.
Peraltro, l’annuncio di un simile piano non può lasciare indifferenti i principali competitors di Unicredit, che pure, a parte Intesa, hanno i loro problemi organizzativi e dimensionali da risolvere; in altre parole, il piano industriale di Unicredit preannuncia una battaglia concorrenziale giocata sul digitale, la riorganizzazione dei processi, il puntare a prodotti standardizzati e facilmente collocabili sul mercato. Nulla che possa far piacere a Pmi e micro-imprese, alle quali, in questo momento, dice davvero tutto male, con l’eccezione, forse, dei fondi del PNRR, per chi saprà andarseli a prendere con piani finanziari seri e credibili.
Ma, come abbiamo potuto constatare nel corso di una lunga e approfondita tavola rotonda di presentazione del C.E.R.R.I. (Collegio degli Esperti per la Ripresa e il Rilancio delle Imprese) avvenuta ieri e alla quale ho avuto l’onore di partecipare, c’è ancora molta strada da fare, soprattutto da parte delle imprese -e, per conto mio, anche di molte banche che ancora discutono se sia accettabile un DSCR inferiore (sic) a 1- sulla strada di una vera relazione di clientela improntata alla partnership e perciò fondata sulla comunicazione finanziaria.
C’è da lavorare, occorre scegliere e farsi scegliere e con motivazioni approfondite.
Ovvero: è meglio una vera banca di transazione che una finta banca di relazione.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio BCE Capitale circolante netto operativo Cultura finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Moratoria dei debiti PMI

For absent friends.

For absent friends.

Immagine che contiene testo, erba

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Fra circa due mesi saranno 50 anni dall’uscita di Nursery Cryme, album leggendario dei Genesis, che contiene il brano di cui sopra. Era ed è progressive rock, per conto mio sufficientemente immortale da meritare celebrazioni e non solo personali: quando poi le parole o i titoli diventano qualcosa di concreto, di vissuto, il ricordo si fa più vivido e ti scatta l’idea per un titolo, per un commento, di contrabbando, sulla vita professionale e il lavoro.

Cynthia è la simpaticona della copertina che decapita l’amichetto Henry con la mazza da croquet: già, ma chi sono, fuor di metafora, gli “amici assenti” di una canzone memorabilmente inglese?

Gli italianissimi dottori commercialisti e, obviously, i loro clienti.

Usciamo da ogni metafora e ritorniamo all’oggi, settembre 2021, lieti delle parole del ministro Franco sulla ripresa del PIL nel corso del suo intervento conclusivo al workshop Ambrosetti. C’è la ripresa e guai a rovinarla con qualche obbligo supplementare, così ha detto il c.d. capitano, non si deve indulgere al pessimismo. E poi c’è il 110%, i soldi del Next Generation EU, la riforma del fisco, insomma perché essere preoccupati per gli assenti?

Non sono servite tante telefonate, nelle scorse settimane, per capire che il tema delle relazioni di clientela, così pesantemente “ribaltato” dagli Orientamenti EBA –ribaltato perché non sono più le banche a dover correre dietro alle informazioni negate da imprenditori riottosi a fornirle, ma il contrario– questo tema è quasi del tutto ignoto ai commercialisti. Così chiami il collega di una grande città del Nord Italia, che si occupa di fallimenti e che ha cominciato da un po’ di anni a capire che il ricorso abusivo al credito e la concessione abusiva di credito non erano solo temi per riviste specializzate in diritto concorsuale, e scopri che non solo non sa che esiste l’EBA ma, ovviamente, nemmeno che abbia emanato degli Orientamenti in materia di prestiti e di monitoraggio sui medesimi. 

Mi dice solo:”Devo studiare”. 

Poi ne chiami un altro, a Roma, amico di quello che ti ha chiesto di aiutarlo sul piano industriale di un’impresa di servizi e, parlando, viene fuori che si è vero, è stato fatto un aumento di capitale, ma rinunciando a un finanziamento soci e che lo aveva suggerito lui per non far andare in negativo il patrimonio netto: è fiducioso nella correttezza del suo operato, peraltro formalmente ineccepibile e gli chiedo se si senta tranquillo sugli esiti della gestione. Certo, dov’è il problema? Finora le banche ci hanno sempre seguito, abbiamo dato loro le garanzie, è quello che cercano, no? No. Vogliono le garanzie lo stesso ma vogliono soprattutto il reddito e i flussi di cassa. Vogliono la sostenibilità del debito. Vogliono che il rapporto tra posizione finanziaria netta ed Ebitda non superi 6 e che il DSCR sia superiore a 1,1. Mi risponde che il DSCR era nel vecchio schema legislativo del Nuovo (sic) Codice delle Crisi di Impresa, è stato riformato, rinviato, stravolto, che c’entra ora? C’entra che lo calcolano le banche e che sono obbligate a farlo, perché è una metrica, ovvero un indicatore obbligatorio di solvibilità: se sei inferiore a 1 con le vecchie performance e a 1,1 con quelle di previsione il tuo debito finanziario non è sostenibile.

Ma come fanno a calcolarlo per il futuro? O gli porti tu il piano industriale e quelli partono da quello che hai scritto e lo testano, verificando le assunzioni e la correttezza del loro sviluppo, oppure se lo fanno da soli, prevedendo tutto al ribasso…

Ah! Non lo sapevo.

For absent friends. God, have mercy on us. 

P.S.: se il tuo rapporto tra PFN ed Ebitda supera 6 (e verosimilmente anche il tuo DSCR non sta meglio) significa che sei un UTP o unlikely to pay, inadempienza probabile. Prima o poi qualcuno dirà che il Re è nudo.

P.P.S.: come dimostrano un po’ di simulazioni che abbiamo fatto su svariate società, per fare nuovi investimenti, in più di un caso, non bastano nemmeno i soli quattrini dell’imprenditore a copertura, ovvero tutto l’investimento fatto con equity. No, ci vuole anche capitale proprio per ridurre il debito e, soprattutto, per rimanere a galla. Ma ne deve valere la pena. 

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Alessandro Berti Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

La riforma (?) del codice delle crisi di impresa.

La riforma (?) del codice delle crisi di impresa.

Il decreto legge 118 pubblicato sulla G.U. del 24 agosto scorso individua un nuovo “percorso di aiuto delle imprese in difficoltà”, come recita l’articolo del Sole 24 Ore di Lucia Mazzei, introducendo la figura di un soggetto terzo e indipendente al quale sono affidati compiti assai importanti, dalla valutazione della effettiva situazione aziendale -e di conseguenza delle sue effettive possibilità di rilancio- fino all’individuazione delle ipotesi di fuoriuscita dalla crisi e all’assistenza all’imprenditore. Come sottolinea l’articolo il percorso è “del tutto volontario ed extragiudiziale” e sarà operativo a partire dal 15 novembre p.v.: slitta addirittura al 31.12.2023 il sistema di allerta automatico ed obbligatorio previsto dalla stesura originaria del Codice delle Crisi d’impresa, ovvero quella che venne poi a deragliare con i provvedimenti emergenziali emanati a seguito della pandemìa (dal Decreto “Liquidità” in poi). Non a caso l’Ordine nazionale dei dottori commercialisti invoca, al riguardo, l’avvio di un processo di riforma definitiva del Codice stesso.

Se è evidente l’intento del provvedimento, ovvero evitare l’aggravarsi delle crisi aziendali a seguito del lockdown, meno evidente appare la sua organicità rispetto alla situazione normativa nella quale operano le banche, caratterizzata dall’entrata in vigore degli Orientamenti EBA dal 30.6.2021. Gli istituti di credito, come è agevole ricordare, sono sovente i principali creditori dell’impresa in difficoltà, insieme all’Erario e agli Enti previdenziali e il realismo imporrebbe che si tenesse conto delle loro esigenze, non appena gestionali ma, soprattutto in questo momento, di natura normativa.

Che le banche siano imprese lo dice a chiare lettere la riforma operata con il T.U.B. del 1993, ma che le banche siano imprese speciali, destinatarie perciò stesso di una legislazione ad hoc e di un sistema di vigilanza dedicato non deve essere mai dimenticato: non a caso il Position Paper n.30 (agosto 2021), “Rischio di credito 2.0” dell’AIFIRM (Associazione Italiana Financial Industry Risk Managers) parla esplicitamente di un quadro normativo che nel tempo è andato allargandosi, a partire da Basilea 2, fino ad arrivare alla trattazione di aspetti fino a quel momento dati per scontati o, più semplicemente, demandati alla prassi.

È proprio il documento in parola, i cui Autori sono stati coordinati dall’autorevole Collega prof.Giacomo De Laurentis, che sottolinea il rischio che, fra le conseguenze degli Orientamenti, vi sia un credit crunch, un razionamento del credito certamente, almeno all’apparenza, improvvido, in questo momento storico: il che, d’altra parte, sarebbe coerente con gli intenti dichiarati degli Orientamenti EBA, ovvero quelli di prevenire pro-attivamente il deteriorarsi del credito fin dall’origine. Teoricamente i due provvedimenti convergono sul tema dell’evitare la deflagrazione della crisi d’impresa e delle sue conseguenze, ma sarebbe troppo ingenuo immaginare un immediato automatismo, senza riflettere su alcuni aspetti.

Il Decreto Legge 118, infatti,  pone almeno due ordini di problemi:

  1. la reale professionalità e le reali competenze di commercialisti, avvocati e consulenti del lavoro in materia bancaria, rispetto alle quali è lecito nutrire qualche dubbio, alla luce delle ben note lacune in materia di normativa bancaria e di una visione spesso ancorata ad un passato (il valore delle garanzie in primis): sotto questo profilo non resta che augurarsi che i corsi di formazione di cui parla il DL e i cui contenuti dovranno essere definiti dal Ministero della Giustizia entro il 24 settembre, siano imperniati sui temi della valutazione dell’equilibrio economico e finanziario storici e prospettici, sulla programmazione finanziaria, sulla corretta determinazione dei fabbisogni finanziari d’impresa;
  2. la reale volontà e consapevolezza degli imprenditori (e dei consulenti che li assistono), di assoggettarsi a un processo che, su basa volontaria, inevitabilmente metterà in luce le criticità della gestione, magari fino a quel punto sottaciute o ignorate: in altre parole, il tema che si pone è senza dubbio quella della tempestività, problematica che da sempre affligge le imprese in crisi, la cui auto-coscienza si rifiuta, sovente, di guardare in faccia alla realtà.

L’indipendenza del professionista coinvolto nella composizione negoziata della crisi  e la sua terzietà da sole non bastano, del resto se, sia pure volontariamente, si pone mano al tema della crisi d’impresa quando ormai è troppo tardi o quando il processo di degrado delle condizioni di gestione è pressoché irreversibile. Il tema, in altre parole, è squisitamente di natura culturale e riguarda non solo i professionisti, la cui cultura d’impresa si è comunque fortemente accresciuta negli anni, ma soprattutto gli imprenditori, ancora prigionieri di una mentalità che considera il fallimento come una condanna, anziché come una possibilità, e la crisi come un problema che è meglio rimandare il più avanti possibile, come quasi sempre si è fatto nel passato, inseguendo spesso soluzioni finanziarie anziché economiche, di rinvio delle scadenze anziché di ripensamento del business model.

Solo così, a ben riflettere, sarà possibile che l’ennesima riforma delle crisi d’impresa non si traduca in un provvedimento utile tutt’al più a soggetti interessati esclusivamente ad incarichi professionali, ma agevoli il cambiamento della mentalità delle imprese e di coloro che le assistono.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese informazione PMI

Redditività & liquidità: la strana coppia.

Quando facevo il “bocia” del mio Maestro, il compianto prof.Giampaoli, nell’apprendere le segrete arti dell’analisi per flussi commentavamo spesso, insieme agli studenti in aula o in sede d’esame i bilanci di determinate aziende. Ricordo con chiarezza la frase da lui pronunciata e che, inevitabilmente, dirimeva o quasi, all’inizio di ogni discussione, il dibattito successivo: “azienda a buon andamento economico” vs “azienda a cattivo andamento economico.” Ma ricordo anche molto bene come la frase stessa la dessi, dentro di me, un po’ per scontata, volendo tornare subito a esplorare l’azienda sotto quel profilo così affascinante che è l’analisi per flussi.

Sono passati molti anni e molti anni passate nelle aule, nelle aziende e, soprattutto, negli uffici fidi delle banche sono serviti -oltre che a lasciare i segni del tempo, cosa di cui si farebbe volentieri a meno- anche a consolidare una convinzione: che l‘analisi della redditività è l’aspetto più importante dell’analisi aziendale e che “l’andamento economico”, riassunto negli Orientamenti EBA nell’analisi del fatturato, del ROE, del ROI e del risultato netto di gestione, oltre che dell’exit e dell’Ebitda non è solo il punto di partenza logico, ma anche l’aspetto più importante del processo valutativo.

L’Ebitda, appunto: inequivocabile nella sua formulazione, sia da parte dell’economia aziendale, sia da parte degli Orientamenti EBA, non può che essere composto da Ebit più ammortamenti e svalutazioni, ovvero da risultato netto, più imposte, più interessi passivi, più ammortamenti e accantonamenti (*). E se l’Ebit è la ricchezza creata, gli ammortamenti e gli accantonamenti, sebbene siano di natura non monetari, sono pur sempre costi.

Una prima conclusione: l’Ebitda è fondamentale, in tutte le analisi, interne o esterne, ma occorre comprenderne bene la composizione. Se prevalessero i costi non monetari rispetto alla creazione di nuova ricchezza, infatti, presto o tardi il bilancio aziendale dovrebbe pagare il suo tributo alla necessità di nuovi e più costosi investimenti o, in ogni caso, alla necessità di mantenere efficiente il capitale fisso. Al contrario pare maggiormente tranquillizzante, anche in prospettiva, il maggior peso assunto dall’Ebit, a significare l’importanza della capacità della gestione caratteristica o operativa, di generare ricchezza.

Una seconda e non meno importante conclusione: intorno all’Ebitda ruotano ormai da qualche anno (con gli Orientamenti EBA tali prassi è stata assunta dal regolatore) tutte le valutazioni di sostenibilità storica e prospettica dell’azienda che si esamina, sia utilizzando il rapporto Debiti finanziari (o Posizione finanziaria netta) su Ebitda, sia calcolando il DSCR.

Pertanto la liquidità, così tanto invocata, soprattutto nel periodo più grave della pandemia, non solo non si autogenera magicamente ma, soprattutto, è figlia di un processo che mira a un’efficiente e duratura produzione di ricchezza.

Riflettiamoci, e continuiamo a riflettere sui numeri della nostra azienda: per voi i nostri link a https://www.reaconsulting.com/utility/ e per verificare che i vostri conti aziendali siano EBA compliant per la vostra banca https://www.reaconsulting.com/utility/eba-compliance/ .

(*): e quindi l’incremento degli impianti per lavori interni a incremento della consistenza dell’Ebitda, così come avviene nel modello CE.BI., riga 6.44, è una vera eresìa.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

79 anni e non sentirli (sull’art.218 del RD 267/42).

Uno dei migliori che io abbia mai assaggiato, se non il migliore. Purtroppo non è lo sponsor di questo blog.

E così la Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza n.18610, proprio il 30 giugno, ha stabilito (per l’ennesima volta) la responsabilità della banca nell’erogazione abusiva del credito all’impresa in crisi.

Nell’affrontare il tema, la Suprema Corte intitola il paragrafo 3.2.1. “I doveri dell’operatore bancario” e individua come condotta illecita quella della “concessione abusiva di credito” con la quale “il finanziatore concede o continua a concedere, incautamente credito in favore dell’imprenditore che versi in stato di insolvenza o comunque di crisi conclamata”. Nell’integrazione della fattispecie, ovvero perché si verifichi la concessione abusiva di credito, (…) rilievo primario assumono, accanto alla regola generale del diritto delle obbligazioni relativa all’esecuzione diligente della prestazione professionale ex.art.1176 c.c., la disciplina primaria e secondaria di settore e gli accordi internazionali (sic).”

Il soggetto finanziatore, sulla base della disciplina dei cui sopra, (…) “è invero tenuto all’obbligo di rispettare i principi di c.d. sana e corretta gestione, verificando, in particolare, il merito creditizio del cliente in forza di informazioni adeguate.

Dunque, nell’affrontare un tema che risale a una legge che ha solo 79 anni, la Cassazione non solo fa presente che vi sono discipline primarie e secondarie, oltre che accordi internazionali, ma anche che, per usare le parole degli Orientamenti EBA, la banca deve valutare il merito di credito al meglio delle informazioni possedute al momento della concessione.

E quindi ancora per citare la suprema Magistratura, “è peraltro richiesto che, nella formulazione delle proprie valutazioni, la banca proceda secondo lo standard di conoscenze e capacità, alla stregua della diligenza esigibile da parte dell’operatore professionale qualificato, e ciò sin dall’obbligo ex-ante di dotarsi dei metodi, delle procedure e delle competenze necessari alla verifica del merito creditizio.”

Che EBA, 79 anni dopo, non stia dicendo nulla di nuovo lo testimonia il passaggio della sentenza che recita “in sostanza, sovente il confine tra finanziamento meritevole e finanziamento abusivo si fonderà sulla ragionevolezza e fattibilità di un piano aziendale.”

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Capitale circolante netto operativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese informazione PMI

Sul perché non possiamo non considerare l’ICR (interest coverage ratio) nella valutazione del merito di credito.

Se fossi un imprenditore e mi chiedessi: “ma cosa diavolo guardano le banche per prima cosa quando guardano i miei conti?”, non potrei più rispondermi, con la più classica delle facilonerie, “gli immobili” o “il capitale proprio” o “il fatturato”, il quale ultimo, come ben sappiamo, è vanità.

Gli Orientamenti EBA in vigore da ieri impongono, all’interno delle ormai ben note “metriche“, di considerare il cosiddetto Interest Coverage Ratio, o rapporto di copertura degli interessi passivi mediante il risultato operativo. Non esiste una graduatoria delle metriche più importanti, se nel documento una metrica è indicata va calcolata e basta: l’ICR è un indicatore notissimo, discriminante e predittivo, utilizzato sia in ambito accademico, sia in ambito professionale e dice una cosa molto semplice, suffragata da numerosissime ricerche empiriche, ovvero che il risultato operativo deve essere pari almeno al doppio degli interessi passivi.

In altre parole il valore considerato tranquillizzante è 2 o superiore, valori inferiori sono da ritenere tanto più preoccupanti quanto più si avvicinano a 1, per motivi facilmente intuibili. Da un lato che il risultato della gestione caratteristica copra a malapena il costo del debito finanziario farà dubitare della capacità di fronteggiarlo, quel debito, in termini di quota capitale; dall’altro, con il costo del denaro mai così basso da molti anni in qua, la vicinanza eccessiva tra i due importi potrebbe rivelarsi pericolosissima in caso di mutamenti sul mercato del credito (rialzo dei tassi, cambiamenti nelle politiche delle banche centrali etc…).

Infine, due precisazioni: la prima è che il reddito è il principale se non l’unico dei flussi di cassa idonei a rappresentare la capacità restitutiva o, come la chiama l’EBA, la fonte della capacità di rimborso; la seconda è che, come ben specificato nel documento in fase di “ricostruzione” dell’Ebitda, le componenti straordinarie devono rimanere fuori (e quindi il modello CE.BI., quello più in uso nelle banche italiane, è da rifare!).

Se ne riparla; e comunque, se volete fare un piccolo check-up alla vostra bancabilità, insomma se volete capire se siete EBA compliant, un po’ come nella foto di copertina, vi suggeriamo di fare un giro qua:

EBA compliance