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Bisogna fare sviluppo.

Bisogna fare sviluppo.

SviluppoIn uno strano mese di luglio, denso di lavoro inframmezzato da ferie (poche: per chi fosse interessato a come è andata, si rimanda a twitter), mi è capitato più volte di esaminare aziende che prima di compiere un passo vogliono verificarne la fattibilità, con un atteggiamento certamente molto diverso dal passato, recente e non. Allo stesso modo, e quasi in parallelo, più di un bancario, ma ovviamente anche dirigenti ed amministratori, mi ha dichiarato che “bisogna fare sviluppo“, togliendo il freno a mano che ha finora bloccato l’erogazione di prestiti.

Sembrano buone notizie, sembrano i primi passi di un modo finalmente “sano” di intendere le relazioni di clientela, improntato a ragionevolezza: al punto che una Bcc del Sud mi ha chiesto cosa pensassi di un’impresa della quale si dubitava ma che, in qualunque regione del Centro-Nord, sarebbe stata affidata immediatamente. Tuttavia, appunto, “bisogna fare sviluppo“: ovvero, si deve fare crescere il margine di interesse, si deve fare credito alle imprese, si devono cercare nuovi clienti.

Tutto bene? Anzi, sbrighiamoci a fare credito, perché è già tardi? In realtà “fare sviluppo” richiede molto di più di una mera disponibilità ad erogare risorse finanziarie. Mentre le categorie continuano la litania dei lamenti (non perché ci sia da ridere se un’impresa chiude, ma è semplicemente il mercato, bellezza!), mostrando tutti i limiti tecnici e culturali dei modelli associativi italiani, la questione che emerge è proprio quella della selezione: parola sgradevole probabilmente, ma anche l’unica che dovrebbero avere a cuore gli imprenditori seri e le banche che li finanziano o vogliono finanziarli. Senza selezione le risorse finanziarie saranno distribuite, ovvero allocate, in maniera sempre meno efficiente, L’efficienza allocativa, ossia l’efficienza nel modo con cui il mercato seleziona gli impieghi meritevoli di credito rispetto a quelli scadenti, è uno dei concetti che più di tutti mi hanno affascinato della materia che studio ed insegno. Ma, nel contempo, è uno dei concetti più desueti e distorti e, proprio per questo, più teorici ed inattuati. La valutazione del merito di credito basata sulle garanzie o sulle conoscenze, sulla “storicità” del rapporto o sull’esistenza di proprietà immobiliari, anziché rispetto ai fondamentali dell’equilibrio economico e finanziario, ne è un triste esempio.

Se si è coscienti di questo, “bisogna fare sviluppo“può diventare non una mera parola d’ordine di stampo commerciale o lo slogan dell’ufficio marketing, ma qualcosa di molto più interessante. Può diventare la partenza di un modo di fare banca che si confronti con la realtà in modo duro, serio ed impegnativo, che chiami le imprese a scegliere e farsi scegliere, valorizzando la cultura d’impresa e castigando la rendita. C’è solo un modo per fare tutto questo, a dispetto delle scelte di tante grandi (purtroppo non solo loro) banche: valorizzare il capitale umano, investire su di esso, svilupparne le competenze e la cultura d’impresa. Proprio per questo, la sfida è ancora più grande.

 

 

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ABI Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Bolla immobiliare Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Vigilanza bancaria

Alibi.

Alibi.

Matteo_Renzi Matteo Renzi mi piace. Alle “prime” primarie, quelle dove perse con Bersani, lo votai pure. Mi piace quel che dice, avverto sintonia con gran parte dei suoi intendimenti, potrei pure rivotarlo alle politiche. Premesso che il Presidente del Consiglio non necessita dei miei inutili endorsement, quella frase sulle “banche che non hanno più alibi” continua a farmi pensare. Mi fa pensare perché mi sarei aspettato che Confindustria la cavalcasse immantinente, mentre Squinzi si è messo a dire che le imprese hanno salvato l’Italia. Gli ri-chiedo (l’ho già fatto retoricamente su twitter): quali? Quelle che hanno comprato il terzo capannone mentre ne avevano già due anzichè investire in tecnologia? Quelle che si lamentano dello Stato che non paga e poi però tengono i trentenni come co.co.pro. per anni? Forse Squinzi non è interessato. L’ABI, allora: forse l’ABI, per bocca del suo ineffabile presidente Patuelli o di qualcun altro. No, l’ABI ci ha tenuto a far sapere che la domanda di mutui è in ripresa: non sappiamo per comprare cosa, probabilmente “garanzie” che nel frattempo si sono certamente ri-valutate e che così diventano di nuovo liquide. All’ABI di Renzi non interessa. La Banca d’Italia? La relazione del Governatore è stata una delle più modeste degli ultimi anni, persino umiliante per il prestigio dell’Istituto quando afferma che gli interventi effettuati per crisi bancarie riguardano l’1% del mercato. Alla Banca d’Italia, a quanto pare, importa la corretta “classificazione a voce propria”, ovvero che gli incagli siano chiamati col loro nome e così le sofferenze. Non importa la cura per il credito deteriorato, ma che la febbre sia ben misurata.

L’impressione è che la frase del Presidente del Consiglio, certamente scaltra sotto il profilo politico e del consenso, sia caduta in una sorta di terra di nessuno. Una no man’s land sospesa da una parte tra banche (purtroppo e soprattutto locali) che ancora oggi dicono di voler portare a casa ricavi da servizi ma non facendo consulenza alle Pmi sulla gestione del fabbisogno, bensì vendendo polizze, carte di credito e fondi di investimento (e il margine di interesse? e la remunerazione della raccolta? e il fare banca per davvero?) E dall’altra tra imprenditori -o presunti tali- che continuano a chiedere denari per aprire bar, tabacchini, pubblici esercizi, edicole, ed altre ignobilia del terziario arretrato. Senza mai mettere un soldo. Senza calli nelle mani, mai, neppure in prospettiva. Oppure rinviando l’affronto dei problemi, quasi sempre economici e mai finanziari, come ormai accade da 7 anni.

Le banche non hanno più alibi. Ma a quanto pare, hanno molti complici.

 

 

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI

Scusi, ma lei è un “rientrista”?

Scusi, ma lei è un “rientrista”?

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Questa domanda me la sono sentita rivolgere da un gruppo di bancari, durante una lezione in Calabria nella settimana appena finita. Ho inteso la connotazione “scontata” nella richiesta ed ho approfondito, scoprendo assai in fretta quello che sapevo già, ovvero che quanto stavo affermando era in linea con le indicazioni dell’ufficio fidi ma andava “contro” le esigenze della rete. La rete, il territorio, lo sportello, il rapporto con il cliente, la “trincea”: la traduzione che dei modelli organizzativi delle banche viene fatta da chi in banca chi ci lavora è spesso semplicistica, ma efficace. Gli alti comandi, compreso l’ufficio fidi (ed i suoi sgherri, come il sottoscritto) stanno al caldo nelle retrovie, la rete, appunto, cammina nel fango delle trincee. Quando metti qualcuno a rientro sei un “rientrista” e non ti rendi conto che il cliente ha dei problemi, che dobbiamo aiutarlo, che dobbiamo venirgli incontro: dobbiamo venirgli incontro anche a costo di sembrare ridicoli, come l’ignoto redattore di un’istruttoria che ho visto in Veneto, conclusasi con “il cliente è sull’orlo dell’abisso (sic)”.

Non so come impatteranno realmente le nuove regole di Basilea 3 e le sue declinazioni, compresa quella di cui si parla di meno, ovvero il R.A.F. (Risk Appetite Framework) sul comportamento delle banche italiane, specie quelle minori, ovvero quelle che intrattengono relazioni privilegiate con le Pmi: ma ho la sensazione che molte di esse avrebbero desiderato si avverasse la richiesta, il quasi-mantra, di Sebastiano Barisoni, vice-direttore di Radio 24, che per mesi ha continuato a dire che Basilea 3 sarebbe stata una sciagura per tutti e che se ne doveva ritardare l’avvio il più possibile. E’ singolare che chi ha fatto del mercato la propria ragione d’essere (Confindustria, perlomeno sulla carta) dal mercato rifugga, scansando la più solare delle evidenze: continuare a finanziare imprese decotte distorce il mercato e la concorrenza, ingessa risorse che non saranno più recuperate e, soprattutto, che non potranno essere allocate in maniera efficiente ad imprenditori e progetti meritevoli, a settori non comatosi come l’edilizia, a pmi marginali.

Essere “rientristi” non significa essere malvagi ed insensibili (il problema, peraltro, non mi attanaglia, dormo ugualmente): essere “rientristi” significa avere a cuore il mercato ed i suoi meccanismi. Più ne ritarderemo la rimessa in funzione, più tardi si avvierà la ripresa.

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Il grande freddo (che non sia tutta colpa delle banche?)..

Il grande freddo (che non sia tutta colpa delle banche?).

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Dal 2000 a fine 2012 la quantità di credito erogato dalle banche italiane all’economia è raddoppiata. Nello stesso periodo gli investimenti delle aziende sono aumentati di un misero 15% e il fatturato ancora meno. La produzione industriale, invece, dal 2000 al 2012 è diminuita del 20%.” Così Morya Longo su Il Sole 24 Ore  (leggi su http://24o.it/WrfhO). Che non sia tutta colpa delle banche? Gli investimenti immobiliari quanta parte hanno in quel peraltro misero 15%? Una così ampia divergenza tra l’incremento degli investimenti, anche al netto del giudizio “misero“, e la riduzione della produzione industriale fa pensare che la parte del leone l’abbiano fatta proprio quei capannoni che ora, tutti allineati come soldati napoleonici, si ritirano dalla Russia inutilmente invasa. Forse sarebbe il caso di cominciare a dire che c’è qualcosa nella mentalità-cultura imprenditoriale italiana che è da rivedere, quello stesso qualcosa che ha portato negli anni scorsi a pensare che la via più breve per sistemare sè stessi e l’azienda era investire nell’immobiliare, dimenticando tecnologia, marketing, processo e prodotto. Problema culturale, in quanto problema valoriale, ossia di quel che metto al primo posto, che mi guida nell’agire quotidiano, che mi indirizza nelle scelte. E non c’è stato un solo presidente di Confindustria che si sia mai fatto carico appena lontanamente del problema (se Marcegaglia è stata inutile, non parliamo del rossonero Mapei), è ben difficile immaginare che lo possa fare un qualunque governo, compreso il futuribile Renzi. Dunque la palla è nel campo di tutti coloro che hanno a cuore, per lavoro o per passione, il tema delle relazioni di clientela: perché se non si può fare a meno delle banche per finanziare lo sviluppo, non si può davvero chiedere loro di sostituirsi agli imprenditori. Resta solo un dubbio: s’agit-il d’un trop vaste programme?

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Tu quoque, Saccomanne.

Tu quoque, Saccomanne.

saccomanni-2Come un Vincenzo Boccia di Piccola Industria di Confindustria qualsiasi, il Ministro Fabrizio Saccomanni ha detto la sua sulla situazione di difficoltà in cui versano le imprese, ritirando fuori dal cassetto i mini-bond di montiana memoria. Strumenti inservibili, di nessun vantaggio fiscale e di nessuna utilità pratica, poiché vincolati a tassi di emissione fuori mercato, e pertanto non appetibili per gli investitori. Stupisce che un ministro della preparazione di Saccomanni, già in Banca d’Italia, abbia parlato di qualcosa di cui conosce bene la sostanziale inutilità; tanto più che, perlomeno, non era mancata, con buona pace del PdL e del saccente Renato Brunetta, la chiarezza e la sincerità nell’affermare che non si intravvedono spazi per i tagli. Andrebbe aggiunta un’altra cosa, ma comprendo che nessuno voglia o possa dirlo. I prossimi tagli (p.e. i forestali calabresi?) colpirebbero il bacino elettorale di qualcuno. Un’ottima ragione per non farli: molto meglio, appunto, parlare di mini-bond.

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Ancora tu (la finanza innovativa per le Pmi).

Ancora tu (la finanza innovativa per le Pmi).

Un articolo dell’ottimo Fabio Pavesi sul Sole 24Ore on line di ieri riporta le stanche considerazioni del Centro Studi Confindustria su come (sperabilmente) uscire dalla stretta creditizia. JM forse è incattivito dalla crisi e dalle circostanze -e la cattiveria induce talvolta al cinismo- ma leggere che la finanza innovativa, i mini-bond, i bond di distretto e le cartolarizzazioni (sic) potrebbero essere, secondo Confindustria, una soluzione al credit crunch non offre nemmeno il brivido di una promessa elettorale allusiva ed affascinante, ma che non può essere mantenuta. Leggere che secondo il Csc nuovi finanziamenti «vanno trovati aprendo canali alternativi a quello bancario, da tempo individuati ma mai diventati realmente efficaci» e «bisogna superare i tradizionali limiti di accesso delle aziende italiane ai mercati»; che maggiori risorse «devono venire dal capitale proprio delle imprese. Ciò richiede il rilancio di vari strumenti. La crisi ha frenato in Italia lo sviluppo del mercato del private equity, importante per le PMI che non accedono alla Borsa. Anche l’espansione degli strumenti ibridi di capitale, come il mezzanine finance, va rilanciata»; ecco, leggere tutto questo è deprimente. Deprimente come l’avvertire la vacuità di parole d’ordine che Confindustria ripete stancamente da anni, pensando che il problema siano gli strumenti e non, per esempio, la mancanza di trasparenza delle Pmi, la loro modestissima -quando non assente- propensione al to go to market, la chiusura al capitale esterno, tranne che per il debito. Il private equity è invocato ritualmente, come la manna da cielo; ma mentre la manna era per tutti, il private equity è per pochi e in Italia si fa solo per operazioni che non riguardano la fase iniziale del ciclo vitale dell’impresa. Ciò di cui il Csc, al solito, non parla è ciò che è più faticoso, ovvero rilanciare il rapporto banca-impresa, coinvolgere entrambi i protagonisti della relazione di clientela in un rapporto trasparente e fiduciario, provando a condividere giudizi, culture, tecniche e, vivaddio, anche strumenti. Anche: perché  non c’è mercato dei capitali che tenga per chi non voglia attingervi con coscienza e responsabilità.

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Marziani a Milano (credit crunch percepito).

Marziani a Milano (credit crunch percepito).

Grazie all’ottimo Carlo Alberto Carnevale Maffè e con il contributo fattivo di Fabio Bolognini (e l’intenso appoggio morale del sottoscritto) è stata organizzato nella giornata di ieri, a Milano, un incontro di discussione sul tema del credit crunch e del problematico rapporto banca-impresa. Poiché gli interlocutori, riuniti solo l’egida dell’associazione The Ruling Companies, erano di assoluto spessore (fra gli altri, Davide Croff, Franco Keller e il direttore di Confindustria Bergamo, Venturini), le riflessioni che ne ho tratto sono tanto più rilevanti perché provengono da osservatori qualificati, personaggi del mondo dell’imprenditoria e della finanza attenti alla realtà, leader non banali nel loro settore.

La prima riflessione marziana che emerge dal pomeriggio di ieri riguarda quelle che Akerlof e Shiller chiamano “narrazioni“, ovvero il modo di rappresentare la realtà che qualcuno utilizza. Le narrazioni sono personali, ad evidenza, pretendere che siano oggettive è negare il valore dell’esperienza di chi le condivide: ma ascoltare, per esempio, che “ormai quasi tutte le imprese adottano processi di programmazione e pianificazione economica e finanziaria” mi ha fatto domandare se vivere nella metropoli sia così distorsivo della realtà. La programmazione finanziaria, come emergeva da una ricerca che il sottoscritto, il prof.Comana ed altri colleghi dell’Università di Bergamo e non solo presentammo nel 2004, proprio a Confindustria Bergamo, veniva adottata, anche in quel caso lì (non proprio una zona sottosviluppata e periferica) da n.2 (due: two; deux; zwei; dos) imprese sul totale del nostro campione, di cui non poche quotate. Che riferimento alla realtà è quello che è stato offerto ieri? Come hanno fatto certe imprese ad inguaiarsi se non per mancanza di programmazione economico finanziaria? Di cosa stiamo parlando?

Seconda riflessione marziana. Mentre si afferma che le banche hanno smarrito la capacità di analizzare e valutare il merito di credito (sacrosanto), incolpandone la delega ai computer per la valutazione del rischio (qualcuno di quelli che hanno creato valore in quel modo c’era ieri? se c’era, si vergognava? o si è dimenticato? Croff, presidente di due banche brillantissime?), si sostiene, con impunità degna di miglior causa, che in questo modo non emergono gli intangibles, così decisivi nella valutazione delle imprese. Ancora gli intangibles? Un disco rotto, che nemmeno la creazione di valore si porta più, eppure qualcuno ci prova. Domanda corrosiva di JM fatta via twitter, e non amplificata perché corrosiva: ma se gli intangibles sono così importanti, chi càspita ha comprato tutti i tangibles che intasano il mercato immobiliare, quello delle garanzie e la liquidità bancaria?

Terza riflessione marziana. In palese spregio al principio di non contraddizione, il dir.gen. di Confindustria Bergamo afferma  che: a)-se si reca nelle valli e lungo i litorali (come la nebbia) a parlare con gli associati, non può parlare loro di finanza e di fabbisogno finanziario, perché non ne capiscono nulla; b)-che alla faccia di tutto ciò, fra i 4 punti principali che la sua associazione enfatizzerà, vi è, oltre alla globalizzazione, ai tempi accelerati, all’internazionalizzazione, la responsabilità sociale dell’impresa. La responsabilità sociale dell’impresa: detto dal dir.gen.dell’associazione territoriale che ha espresso il neo-presidente di Confindustria, non fa bene sperare per la soluzione dei problemi del rapporto banca-impresa. Probabilmente, come ha affermato uno dei relatori, esiste il credit crunch ed il credit crunch “percepito”: a Bergamo non percepiscono (scommettono sulle partite di calcio?).

Quarta riflessione. Uno dei principali cattivi pagatori quotati alla borsa italiana, che afferma di avere tempi lunghi ma di essere sempre regolare (regolare nel tirare il collo ai fornitori, per esempio contestando regolarmente l’ultima tranche di pagamenti) se ne viene fuori affermando che la crisi di liquidità del circolante è causata dall’inasprimento dei requisiti patrimoniali imposta dalla BCE e dalle regole di Basilea 3, quelle che entreranno in vigore nel 2019. Any suggestion is welcome.

Infine. In un soprassalto di crudo realismo, quello che ho notato essere talvolta chiamato cinismo o “essere corrosivi”, qualcuno ha detto che

  1. i margini delle imprese di sono compressi e che non è più conveniente investire per gli imprenditori nelle imprese;
  2. per risolvere le crisi ci vogliono i soldi.

E che i soldi sono finiti. Bene. Se è così, qualcuno è in grado di spiegare perché ai salvataggi dovrebbero pensare solo le banche? Con i soldi dei risparmiatori?

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Garantire (?) il credito alle imprese (grida manzoniane).

Garantire (?) il credito alle imprese (grida manzoniane).

Con rimarchevole ritardo (il 29 febbraio lo aveva già fatto CNA con il sottoscritto) Confindustria Rimini ha tenuto un Convegno sul rapporto banca-impresa, nel corso del quale ha presentato una ricerca svolta su un campione di propri associati.

Il presidente degli industriali Maurizio Focchi ha affermato che “in questo quadro le banche ancor più di prima devono continuare a svolgere un ruolo strategico e fondamentale per le imprese focalizzandosi su 3 punti: garantire il credito e la liquidità alle imprese a tassi concorrenziali; sostenere l’innovazione; sostenere la penetrazione di nuovi mercati specialmente all’estero”.

Garantire il credito: frase fatta che viene ripetuta come un mantra e che forse necessiterebbe di una precisazione. Il credito “vecchio” è quello da garantire, ed è fin troppo garantito, viste le posizioni che la tecnica bancaria ed il buon senso imporrebbero di mettere a rientro, per esempio nel settore, a Rimini pervasivamente presente, dell’edilizia. Quanto ai tassi, devono essere concorrenziali rispetto a cosa? Ai margini operativi in picchiata? Ricapitalizzare le imprese, mai? Vero, qua si dimentica il ruolo eroico assunto dagli industriali riminesi nella ricapitalizzazione di Carim.

Inoltre – ha aggiunto il Presidente Maurizio Focchi – auspichiamo che i finanziamenti che stanno ottenendo le banche dalla Banca Centrale Europea al tasso dell’1%, vengano in parte destinati ai finanziamenti delle imprese, naturalmente a tassi più convenienti di quelli attualmente in essere.”

Naturalmente: oltretutto, se sarà attuato l’osservatorio sul credito alle imprese nella versione tremontiana-rivista-da-Monti, altro che credito garantito e a tassi concorrenziali. Le banche dovranno spiegare e motivare i rifiuti: sarebbe interessante che lo facessero in pubblica piazza, o all’albo pretorio del Comune, così per sottolineare che le banche, a dispetto del TUB, sono ridiventate enti pubblici.

Nell’incontro una particolare attenzione è stata data all’analisi della situazione critica che sta attraversando il settore edile. “In occasione dei recenti Stati Generali dell’Edilizia convocati dalle associazioni di categoria riminesi, dagli ordini professionali e dai sindacati – ha spiegato il Presidente di Ance Rimini, Ulisse Pesaresi – abbiamo lanciato l’allarme sullo stato del nostro settore che oggi rischia il collasso”.

Eufemismi ipocriti: c’è una crisi da sovrapproduzione leggendaria. Troppe case, troppi muri, troppi uffici, troppi capannoni. E troppe imprese di costruzione: troppe. Invocare il mercato è bellissimo, purché riguardi gli altri: al contrario, pensare a Darwin nel settore edile, sarebbe purificatore. Duole dirlo, ma si chiamano fallimenti.

E in un momento così critico è indispensabile che le banche sostengano sia le imprese che i cittadini sottolineando l’importanza della liquidità per iniziative nel settore, come quelle di riqualificazione della struttura edilizia ed ai progetti riguardanti l’ambiente e il risparmio energetico.

E in un momento così critico, se qualcuno di coloro che ha dato case a garanzia finalmente le vendesse? Così, per dare un po’ di liquidità al mercato? Certo, si concretizzerebbe qualche perdita: ma perché si deve aspettare che si riprenda un mercato dove la sovrapproduzione dilaga? Perché l’ANCE sì e Federchimica no?
Senza dimenticare per le imprese edili come per tutte le aziende di altri settori, il tema legato ai rientri e le difficoltà causate dall’allungamento dei tempi di pagamento sia del settore pubblico sia tra privati. Occorre superare, soprattutto per i comuni virtuosi, i vincoli del Patto di Stabilità Interno al pagamento dei lavori. Il nostro settore è strettamente legato all’avvio di nuove iniziative e precludere questa possibilità, con una forte restrizione del credito, significa condannare molte aziende alla cessazione della propria attività.

Già, senza dimenticare. Senza dimenticare che non è sempre colpa dello Stato se non ti pagano: se non ti paga un privato, come puoi pensare che sia la banca a farsi carico dei ritardi e delle inadempienze dei tuoi clienti? E’ responsabile usare i soldi dei risparmiatori per coprire le perdite su crediti di qualcuno? E, infine, è responsabile pensare che superare i vincoli del Patto di Stabilità serva per spendere altri soldi in edilizia? A Confindustria si fanno le grida, all’ANCE si scrive sull’acqua. Benvenuti sulla terra.

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Morire d’impresa.

Morire d’impresa.

L’imprenditore che si è dato la morte qualche giorno fa in Veneto non è morto perché gli strozzini lo avevano messo alle corde o perché le banche gli avevano revocato gli affidamenti, non è morto perché lavorava nel settore delle costruzioni, drammaticamente e strutturalmente in crisi. E’ morto perché non lo pagavano: non lo pagava, probabilmente, lo Stato ma anche (e questo si dice molto poco o molto meno) non lo pagavano i suoi clienti, non lo pagavano i committenti. Altre piccole e medie imprese, probabilmente anche grandi imprese, ma non lo pagavano: ed ha scelto, come gli altri di cui anche su JM si è parlato, di farla finita, incapace di sopportare il peso di dover licenziare. Si dovrebbe tacere in questi casi di fronte a chi compie una scelta estrema, e pregare per lui. E si dovrebbe provare a capire cosa si possa fare perché la crisi d’impresa non diventi qualcosa di talmente traumatico da diventare inaccettabile.

Hanno ragione coloro che hanno parlato di “fatto culturale”: fa parte della cultura della gente veneta l’operosità, la laboriosità, il tenerci a quello che si fa, il farsi carico fino all’ultimo delle proprie scelte. Ma quando questa cultura non riesce ad accettare il fallimento, quando una persona, ognuno di noi, accetta di essere misurato solo sul successo, di essere definito solo dalla riuscita, si diventa protestanti, nel senso religioso e culturale del termine: ed il successo o l’insuccesso sono un’attribuzione divina, contro la quale non serve opporsi.

Si può provare ad uscire dalle angustie terribili di questo schema, anzitutto umanamente? Perché se anzitutto la questione è culturale, significa che riguarda il cuore dell’uomo, la sua concezione della vita, il suo essere definito da qualcosa che sia oltre sé, più grande delle proprie misure. E allora si dovrebbe cominciare a dire anzitutto che l’impresa non ci appartiene, che essa non è nostra, anche se noi ne portiamo la responsabilità, come ci insegna la Scuola d’Impresa (se ne fa sempre troppo poca): che gestirne le sorti è un mestiere impegnativo e bellissimo, ma che nessuno ci toglierà la fatica, mai, neppure quando tutto stia andando bene. E che, dunque, anzitutto, gestire l’impresa significa avere a cuore che prosegua, che continui, che dia benessere a chi ci lavora, che faccia “cose belle”: ma non a tutti i costi, perché gli esiti non ci appartengono. E perché il realismo è una virtù, non solo cristiana.

Last but not least, le nostre associazioni di categoria (tutte, compresa quella di Emma, compresi i piccoli, compresa l’ABI) forse hanno dimenticato che se solo alla fine del 2011 entrerà a pieno regime l’applicazione di quella direttiva che prevede che chiunque non paghi quanto dovuto dopo 180 giorni sia segnalato come inadempiente in Centrale Rischi ed il relativo credito messo ad incaglio o sofferenza, con un ritardo stratosferico rispetto al resto d’Europa, forse la colpa non è del Governo o di qualche altro “cattivo” d’Oltreoceano. Non sarebbe difficile adottare in Italia la normativa francese, per esempio, che prevede che la sola firma sulla bolla d’accompagnamento da parte del cliente che accetta la merce rappresenta titolo esecutivo per riscuotere il dovuto. Non sarebbe difficile, ma se non lo si è fatto, non è difficile immaginare come ed in che modo abbiano lavorato le lobbies: a cui, in finale, un sistema simile fa molto comodo. Alle associazioni di categoria, perché evita l’espulsione dal mercato delle imprese subprime, che pagano i contributi associativi; alle banche, perché evita di dover accrescere il monte delle sofferenze; alle grandi imprese, perché continuano a fare quello che vogliono sul mercato del credito commerciale. Su Twitter c’è un utente, si chiama “limprenditore”, che non lavora più con lo Stato, e secondo me fa bene: e sarebbe anche ora di cominciare a scegliere le imprese per le quali lavorare.

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Ci vuole più private equity, venture capital, le imprese devono quotarsi, etc, etc, etc…

Ci vuole più private equity, venture capital, le imprese devono quotarsi, etc, etc, etc…

Morya Longo, Il Sole 24 Ore

Potremmo chiamarla la «crisi del quinto anno», come nei matrimoni (ma con due anni d’anticipo). Oppure potremmo puntare il dito sull’eccesso di liquidità, pompata dalle banche centrali, che alimenta le bolle. Sta di fatto che i fondi di private equity sono tornati a comprare e vendere aziende agli stessi valori del 2007. Quell’anno, passato alla storia per essere l’apice della «bolla» del private equity, i fondi in Italia acquisivano società valutandole mediamente 11,7 volte il margine operativo lordo. Oggi quei prezzi sono tornati. Proprio ieri i fondi Eurazeo hanno rilevato il 45% di Moncler valorizzando la società 12 volte il Mol: più della media del 2007. Pochi giorni fa Rhiag, di proprietà del fondo Alpha, non ha convinto gli investitori in Borsa, ma ha trovato un altro fondo disposto ad acquistarla ai prezzi che per Piazza Affari erano troppo elevati. Di recente i grandi magazzini Coin sono stati venduti dal fondo Pai a Bc Partners. Aziende che passano da un fondo all’altro, a valutazioni sempre più elevate, come fossero figurine. Sembra di rivedere il film del 2007.

Un deja vù che alcuni operatori spiegano con «la crisi del quinto anno». I fondi di private equity hanno una “vita” decennale: prima raccolgono soldi dagli investitori, poi hanno cinque anni di tempo per investirli, rilevando aziende, e infine hanno altri cinque anni per disinvestirli rivendendo le società a prezzi più elevati. Tra il 2006 e il 2007 sono state racimolate enormi quantità di denaro, ma poi i fondi non sono riusciti a usarle a causa della crisi. Dentro i fondi di tutto il mondo, stima di Morgan Stanley, c’è la bellezza di 434 miliardi di dollari non utilizzati.

Ecco, dunque, il problema: per chi ha raccolto denari tra il 2006 e il 2007, i cinque anni per l’investimento stanno per scadere. Questi fondi dunque devono, a qualunque costo, comprare qualcosa: anche perché, allo scadere dei cinque anni, perderebbero una buona fetta di commissioni pagate loro dagli investitori se non hanno investito i soldi loro affidati. Il bisogno di alcuni di comprare s’incontra poi con quello di altri di vendere: cioè i fondi che hanno acquisito società negli anni della bolla (2006 e 2007) e che ora devono rivenderle partendo da una base di prezzo già alta. È l’eterna legge del mercato.

Se la Borsa, dove pure c’è tanta liquidità, non è disposta a strapagare le aziende, come dimostrano i casi di Rhiag e Moncler, l’unica via d’uscita è di vendere le aziende ad altri fondi: quelli disposti a pagare qualsiasi cifra pur di fare operazioni. Il fenomeno è globale. E, probabilmente, anche italiano. Nella Penisola – calcola Morgan Stanley – tra gennaio e maggio 2011 sono state effettuate acquisizioni per 3,3 miliardi: poco sotto i 3,9 dell’intero 2010. Sta aumentano anche la leva: le banche stanno tornando a finanziare con crediti sempre più elevati le acquisizioni.

Siamo dunque di fronte a una nuova bolla? Molti ne sono convinti. Che succederà quando i fondi, che oggi comprano, dovranno rivendere tra qualche anno e dovranno farlo a prezzi ancor più alti? Non tutti però cedono agli allarmismi: il multiplo di 12 volte il Mol pagato per Moncler, per esempio, è in linea col mondo della moda (dove si vedono multipli anche più alti). C’è una logica dei numeri, si dice. Può darsi. Il problema è che queste giustificazioni si sono già sentite. Nel 2007.

L’ottimo articolo di Morya Longo dimentica di dire ciò che con cadenza martellante ripete Confindustria, Consob e chiunque pensi di avere qualcosa da dire sul capitalismo italiano, compresi i redattori di molti manuali e gli autori di molti libri sui mercati mobiliari: in effetti, abbiamo anche sentito, e non nel 2007, ma molto tempo prima, senza interruzione, che ci vuole più finanza mobiliare, più capitale di rischio, più strumenti innovativi di capitale. Adesso che scopriamo che c’è troppa liquidità, qualcuno vuole dirci dov’è l’errore?