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Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

Chi ricomincia a finanziare gli investimenti?

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La notizia comparsa sul Sole 24 Ore di oggi, che riporta il dato relativo al volume dei prestiti a medio-lungo (sostanzialmente triplicati a dicembre 2016 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente) non può che rallegrare chiunque abbia a cuore il percorso di fuoriuscita dell’Italia dalla crisi e cerchi di cogliere i segnali di ripresa; segnali che non hanno mai cessato di manifestarsi anche in momenti meno recenti, ma che i dati, finalmente, confortano. Fino a non molti anni fa i prestiti a medio-lungo richiesti dalle imprese sarebbero stati destinati, con fin troppa facilità, ad acquisizioni immobiliari nella migliore delle ipotesi inutili, quando non dannose, perché distoglievano risorse e competenze dalla competitività, dalle strategie, dal mercato.

Leggere la notizia mi ha fatto pensare che se questa è la fotografia dal lato della domanda, non meno interessante sarebbe conoscere chi siano i protagonisti dal lato dell’offerta: ovvero, in un Paese banco-centrico come l’Italia, certamente le banche, ma quali banche? La domanda non è oziosa, né riconducibile ad un puntiglio accademico, ma ad alcune recenti esperienze di fidi “offerti”, in senso letterale, a grandi aziende che ne avrebbero fruito poco o nulla, da piccole banche, in particolare Bcc. Quelle stesse banche che dovrebbero sostenere la crescita delle Pmi, offrono prestiti ad aziende di grandi dimensioni, a tassi ultra-competitivi, verosimilmente con una marginalità nulla o ridottissima.

Perché?

Fino a non molti mesi fa, dialogando con chiunque mi fosse capitato nell’ambito delle banche locali, mi sarei sentito dire che il problema del credito era il credito deteriorato, “tanto nuovo credito non ne facciamo“. Il peso del credito deteriorato, prima ancora che un fardello economico, è divenuto un fardello culturale: per non sbagliare, meglio non fare nulla, ovvero il grillismo applicato al credito. Ma poiché qualcosa si deve fingere di fare, allora si eroga credito alle grandi imprese, anziché alle Pmi: perché è più facile e dunque meno costoso valutarle, perché sono meno rischiose, perché anche se guadagno poco, non si genereranno altre svalutazioni. Mi vengono in mente espressioni come miopia, mancanza di coraggio, visione di corto respiro, ma temo che sia molto peggio: temo che molte banche locali stiano pensando che, pur di sopravvivere, sia meglio venire meno alla propria vocazione. Questo fattore, molto più della riforma ormai avviata, rischia di cancellare la cooperazione di credito Italia; ma soprattutto rischia di cancellare un riferimento storico per il mondo delle Pmi, tuttora incapaci di comprendere cosa fare per ripartire e chi siano i loro interlocutori. Non è un problema tecnico, è un problema culturale, di visione, di consapevolezza. Proviamo a lavorarci?

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Alessandro Berti Crisi finanziaria Disoccupazione Economisti Ripresa Sviluppo

Fermiamo il declino! ri-approvo, ri-sottoscrivo e voto!

Fermiamo il declino! Ri-approvo, ri-sottoscrivo e voto!

Cari amici,

il primo invito rivolto a voi tutti è di moltiplicare il più possibile le attività di proselitismo, fund raising, e l’organizzazione di eventi territoriali per estendere la nostra rete e illustrare i dieci punti programmatici, che per noi sono pietra angolare imprescindibile per la verifica di un’offerta politica radicalmente nuova e all’altezza del compito di fermare il declino italiano. I coordinatori regionali hanno iniziato a lavorare a questo fine, la comunicazione quotidiana sui social networks grazie ai volontari impegnati si va intensificando, sul sito trovate le indicazioni delle trasmissioni radio televisive in cui siamo impegnati a rafforzare la nostra presenza, ogni giorno veniamo contrattati da nuove espressioni della società civile, professionale, e da chi non si riconosce nell’attuale offerta politica.

Negli ultimi giorni, tre eventi hanno catalizzato l’attenzione politica dei media. Su ciascuno di essi, qualche breve considerazione per mantenere noi tutti le idee chiare ed evitare equivoci sulla natura della nostra iniziativa. E sulla sua percezione da parte dell’opinione pubblica.

Cominciamo dal confronto interno al Pd. Matteo Renzi sale nei sondaggi di fiducia e popolarità, molti ci chiedono come consideriamo la sua ascesa. E’ presto detto. Apprezziamo l’energia e chiarezza con cui pone nel Pd il tema del rinnovamento della politica e della selezione delle sue classi dirigenti. Non sappiamo come la pensa su alcuni dei punti fondamentali e per noi essenziali, indicati nel nostro programma. Punti per noi irrinunciabili. Non possiamo né vogliamo esprimere alcun consenso alla sua azione, se e finché dichiarerà che in ogni caso il suo obiettivo resta all’interno dell’attuale perimetro del Pd. Vedremo come e se la sua iniziativa evolverà, ma restare nel recinto delle vecchie forze politiche per noi è segno di non comprensione che il problema è proprio quello di superarle, alla luce del pessimo bilancio da tirare del ventennio che abbiamo alle spalle. Di nuovo, Renzi rappresenta un fattore positivo rispetto alla vetusta e inadeguatissima oligarchia del Pd, ma il potenziale di rinnovamento che egli rappresenta finirà sprecato se viene costretto dentro alle maglie strette dell’ideologia che governa la politica del Pd.

Il secondo evento politico è quella della cosiddetta agenda Monti, o meglio la conferma tout court di Monti come premier anche per il futuro e a prescindere dalle prossime elezioni. E’ una questione potentemente rilanciata a Cernobbio, tradizionale appuntamento di ripresa estiva del confronto sui temi economici e finanziari dell’agenda nazionale. E’ un’impostazione inaccettabile, a nostro giudizio. Non si tratta di disconoscere la credibilità internazionale attribuita a Monti, rispetto alla totale sua perdita che giustamente travolse Berlusconi. Si tratta di guardare agli interessi del paese e a ciò di cui ha veramente bisogno. Per quanto ci riguarda, tre questionimolto rilevanti obbligano a ragionare diversamente, sul futuro politico dell’Italia dopo le prossime elezioni.

  • La prima è che dare l’impressione agli italiani che il loro voto abbia un’importanza pressoché nulla – perché si tratta di confermare la stessa premiership tecnica che peraltro rifiuta di sottoporsi a giudizio elettorale – non può che rappresentare un ulteriore incoraggiamento al puro voto di protesta. Con più di una ragione, visto che il ragionamento sottintende che sarebbero “buoni” invece i voti dati a Pd, Pdl e Udc che sostengono Monti, a prescindere dalla loro totale sconfitta politica e sociale, sfociata poi in una soluzione d’emergenza per evitare il collasso dell’Italia come detonatore dell’euro.
  • La seconda è che non comprendiamo in che cosa la più volte citata “agenda Monti” si differenzi davvero, sinora, dalla continuità rispetto all’impostazione di politica economica seguita in precedenza. Agli occhi degli italiani, come si vede anche nella distinzione netta nei sondaggi tra fiducia relativa a Monti e bocciatura del suo governo, l’esecutivo tecnico ha significato più tasse, nessuna cessione di attivo pubblico per abbattere il debito, nessun taglio di spesa che sia stato retrocesso ai contribuenti per far risalire la crescita potenziale, nessuna eliminazione di monopoli e privilegi. Se la discontinuità è mancata perché mancava il consenso popolare e per colpa dei partiti, come sostengono molti fautori della conferma di Monti, allora a maggior ragione solo un nuovo patto con gli italiani, che goda del consenso esplicito degli elettori su proposte precise, può produrre il sostegno necessario a invertire la politica economica imboccando la via di una profonda ridefinizione dello Stato e di ciò che occupa impropriamente, sia centralmente che nelle Autonomie. Questo è ciò che Fermare il Declino propone e che Pdl, Pd e Udc negano a priori.
  • La terza questione riguarda invece il dibattito sotteso al formarsi di un “partito-Monti”. La conferma sarebbe dovuta alla perdita di sovranità dell’Italia, alle clausole condizionali per gli aiuti europei, implicite anche nello stesso programma straordinario di ripresa di acquisti dei titoli eurodeboli recentemente varato dalla BCE. In altre parole, il governo italiano si decide a Berlino e a Bruxelles prima e più che nelle urne italiane, stante che il nostro Paese resta il sorvegliato speciale rappresentando il 19% del Pil dell’euroarea. Non sfugge a nessuno che si tratta di una questione molto importante, e con qualche fondamento. Vedremo come andrà tra poco il voto in Olanda, ma anche in quella nazione – per molti versi non nelle nostre penose condizioni di debito e crescita – sembra profilarsi una soluzione di grande coalizione. Proprio chi ritiene di avere una ricetta per ridare forza all’economia italiana e credibilità alla sua finanza pubblica, deve battersi perché l’elettorato comprenda che questa prospettiva esiste e che è nelle sue mani. Altrimenti, anche da noi prenderanno sempre più piede revanscismi e populismi nazionalisti, come quelli che sembrano alla base del sovranismo nazionale indicato da Giulio Tremonti come base di una sua eventuale lista elettorale.

Infine, il terzo evento che ha alimentato le cronache politiche è stato il convegno di Chianciano, dell’Udc di Pierferdinando Casini. L’intervento di Emma Marcegaglia ha fatto scrivere a molti che la Lista Italia di Casini sarebbe a questo punto già l’inveramento della nuova offerta politica per le prossime lezioni. Noi non la pensiamo affatto così. Abbiamo per questo risposto con un comunicato stampa inequivoco, che qui vi riportiamo:

“A proposito degli accostamenti che sono stati fatti tra l’iniziativa di Fermare il declino e le scelte prese dall’Udc a Chianciano, sottolineiamo che per noi sono dirimenti quattro questioni:

1) Un forte rinnovamento della politica, impegni espliciti nei meccanismi di selezione della classe dirigente, vincoli per i quali non si possa dire una cosa a Roma e una Palermo;
2) Un energico mutamento nella politica economica, con proposte serie per abbattere il debito statale con cessioni pubbliche e retrocedere tagli di spesa in meno imposte a lavoro e impresa, vincolante per noi insieme alle 10 proposte programmatiche che abbiamo presentato;
3) Ridefinire lo Stato, il suo perimetro e le sue mille articolazioni inefficienti, dal socialismo municipale al sottobosco degli enti statali;
4) Cambiare le persone: senza evidenti discontinuità nel ceto politico, non si dà una risposta credibile alla protesta di massa della società italiana.

Su questi quattro punti, l’Udc a Chianciano non ha dato risposte. Continuiamo dunque per la nostra strada. Non c’è molto tempo. Se i partiti credono di affrontare il declino dell’Italia con modesti aggiustamenti, saranno gli elettori a svegliarli”.

Non abbiamo messo in campo la nostra iniziativa per proporre e tanto meno diventare degli indipendenti sotto il simbolo dello scudocrociato, culla di Cuffaro e Lombardo. Se Marcegaglia, Passera e altri la pensano diversamente, questo riguarda loro. Non noi.

Non è affatto detto che da soli avremo, con così poche settimane davanti a noi e con così pochi mezzi esclusivamente frutto di raccolta spontanea, la forza di convincere gli italiani che il cambiamento profondo di cui siamo convinti cammina credibilmente sulle nostre gambe. Ma questo non significa che devieremo dalla chiarezza dei princìpi e delle proposte che abbiamo avanzato.

Fermiamo il declino!

Michele Boldrin, Sandro Brusco, Alessandro De Nicola, Oscar Giannino, Andrea Moro, Carlo Stagnaro, Luigi Zingales

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Sono invecchiato aspettando Godot.

Sono invecchiato aspettando Godot.

Autostrada, GR1 delle 8, ascoltando le notizie provenienti dalla Renania Westfalia come se fosse Radio Londra che annuncia che gli Alleati sono sbarcati in Normandia. Poi, rassicurando me stesso interiormente che la signora ed il suo moralismo luterano continuano a starmi fortemente antipatici, rifletto su quanto sto ascoltando e sulle diverse interpretazioni: soprattutto rifletto sull’uso della parola crescita e sulla necessità di provvedervi immantinente (in proposito ascoltare gli onorevoli Di Pietro, Lupi o Gasparri che invocano la crescita è come ascoltare la rassegna stampa della Pravda di Radio Soviet, tanto monotòni sono certi politici nell’enunciazione dei concetti) che viene gridata da chiunque.

Ma la crescita non è compito di qualcuno che non lo fa, e che è cattivo, mentre qualcuno, che è buono, obviously, vorrebbe ma non può: altrimenti si ricade nella logica perversa dei manifesti CNA. Se qualcuno può fare qualcosa lo può fare a livello di cornice, di quadro, di sistema; ma nessuno può dipingere al mio posto, quello devo farlo io. Una delle cose sulle quali insisto di più nella parte iniziale del corso di bancaria è che le banche non sono il motore dello sviluppo, al più ne possono essere le levatrici. Non so quanto sia casuale, ma negli ultimi giorni ho ripensato a quelli che, nel 2007, alle prime avvisaglie della crisi, avevano ben pensato di chiudere, per non saper né leggere, né scrivere; non ricordo, all’epoca, alcuna campagna di stampa, nessun giornalista sulle tracce di questi eroi dell’imprenditoria, nessun manifesto. Non hanno aspettatto Godot, qualunque faccia avesse, ed hanno chiuso: e forse, forse, hanno fatto bene, perché in qualche caso hanno evitato guai peggiori successivi, dissesti, buchi nei bilanci delle banche. Qualcosa hanno fatto. Non sapremo mai perché lo hanno fatto, quanto fossero consapevoli, ma lo hanno fatto. Mi accontenterei, per il momento, che le Pmi almeno prendessero coscienza di dove si trova la loro barca, avessero idea della dimensione dei loro problemi.

Quegli stessi imprenditori che, se ora non vogliono sentirsi dire che il ciclo monetario è un problema, già allora, nel 2007, avevano incominciato a non aprire neppure l’estratto conto bancario.

“…ed anche la notte di nozze però, io non feci nulla, aspettavo Godot.” (Paolo Lolli)

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Aspettando piazza Syntagma…

Aspettando piazza Syntagma…

…l’economia reale europea gela nelle stazioni italiane.

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Perché Keynes avrebbe torto?

Perché Keynes avrebbe torto?

Il prof.Francesco Forte ne sa sicuramente più di me su Keynes, e non solo. Ma mi sfugge la chiusa del suo articolo, che qui riporto, appunto, nella parte finale. Perché Keynes avrebbe torto? Perché non si può dargli ragione? Le politiche di investimento azionate dalla mano pubblica di chi sono figlie, di Friedman?

Le “politiche non convenzionali” adottate da Draghi a dicembre non costituiscono un marchingegno ipocrita per far fare alle banche gli interventi sul debito statale con i soldi della Bce, come qualcuno scrive. Infatti siamo in regime di razionalità limitata e il mercato ha più informazioni delle autorità centrali. Le banche comperano i titoli che scelgono con le loro informazioni e deformazioni, e i governi le devono persuadere a farlo con le loro offerte differenziate. Il debito che il Tesoro deve emettere nel 2012 è di circa 450 miliardi, ma quello cui si riferisce lo spread decennale non supera i 240. Come spiega Maria Cannata, che al Tesoro gestisce il nostro debito, i titoli a breve che le banche comprano fruendo dei riporti sui prestiti Bce hanno tassi del 2,7-3 per cento. I tassi del 6,5 sui Btp decennali (e settennali) che, al netto dell’inflazione attesa del 2 danno il 4,5, riguardano metà delle emissioni, l’altra metà viaggia sul 2,5-3 per cento. E i titoli triennali e quadriennali possono beneficiare di bassi tassi perché fruiscono dei prestiti triennali della Bce. Ciò abbassa il costo del finanziamento del debito e lo facilita anche per i titoli a lungo, il cui rischio si diluisce. Ma tale politica hayekiana non assicura la crescita. Per la crescita non bastano le liberalizzazioni né la pioggia di denaro, serve una politica di investimento azionata dalla mano pubblica. Qui hanno torto sia Keynes che gli austriaci.

Francesco Forte

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Pharmonomics.

Pharmonomics.

Non avevo pensieri particolari sulle farmacie, fino all’arrivo di un sms ieri sera, che mi chiede una riflessione per alcune future farmaciste. Ci provo, anche se confesso di sentirmi più coinvolto dalle liberalizzazioni delle concessioni degli stabilimenti balneari, perché fa più Strapaese e profonda provincia italiana. Quanto alle liberalizzazioni, Monti ha avuto gioco facile sulle sparate del Presidente del Milan, chiedendosi, ancora una volta, perché, se fosse stato così semplice realizzarle, non ci abbia pensato il governo precedente. Anyway, poiché da qualche parte si doveva cominciare, Mario Monti lo ha fatto, fra l’altro, dalle farmacie ed anche JM comincia di qua.

Pensiero immediato riflettendo sui farmacisti: sono ricchi, stanno bene. Generalmente è vero, è abbastanza evidente. I genitori di un mio collega di università erano farmacisti, ed erano ricchi, la farmacia rendeva, gli hanno lasciato un patrimonio. Non sarà un’evidenza empirica, di quelle che generano una “robusta correlazione statistica” e che fanno lampeggiare SPSS ma è così. E’ vero anche a Rimini, dove vivo. Secondo pensiero immediato: quanto costa una farmacia? Risposta popolare immediata: tanto! Una farmacia vale tanto ed anche questa è un dato di realtà, verificato con alcune concordi interviste presso qualificati commercialisti. Come in tutti i mercati opachi e poco trasparenti, il prezzo di mercato non è fissato da un meccanismo efficiente, ma spinto da altri fattori. Uno di questi, certamente è l’oligopolio tipico di questo mercato: poiché 1)- non posso svegliarmi domattina e decidere di aprire una farmacia, ma le licenze sono contingentate e l’attività non è libera, 2)-i farmaci sono beni a domanda anelastica (sulla salute, di norma, non si risparmia), possedere una farmacia non è come aprire un negozio di maglioni. Le maglie possono essere belle o brutte, di buona o cattiva qualità, il negozio può essere in periferia, i commessi incapaci: e potrebbe fare troppo caldo. Insomma, vendere maglie non offre garanzie di reddito, vendere farmaci sì. Il farmacista può essere sgarbato, antipatico, la farmacia periferica (quasi meglio, si parcheggia bene), ma il farmaco lo trovi solo lì, soprattutto il farmaco che serve, quello che non è in vendita libera: se poi è notte, o è domenica, la farmacia deve essere quella lì, quella di turno, e se è dall’altro capo delle città, pazienza. Il raffreddore ce l’hai anche con le stagioni strane, la cardioaspirina devi prenderla tutti i giorni etc..

Aprire una farmacia costa molto, si può solo comprarla: e recuperare l’investimento è lungo e difficile. Tre anni fa feci una consulenza ad un avvocato del Nordest  che se l’era comprata per la figlia, che diversamente avrebbe continuato a fare l’erborista. La consulenza fu superflua, la farmacia -stagionale- era già stata comprata, ad un prezzo con sei zeri, in una zona di villeggiatura; la mia consulenza serviva a dare l’imprimatur all’affare. Imprimatur che non venne, perché a mio parere, e qui è il punctum dolens della questione, a quei prezzi c’è solo un modo per recuperare il capitale investito, ed è rivendere. Non dipende dalla stagionalità dell’attività, poiché la stessa farmacia, in una città costerebbe molto di più e renderebbe in proporzione. No, dipende solo dall’oligopolio, e dal fatto che tu ci sia dentro o no. Se ci sei dentro e sei uno degli oligopolisti o hai ereditato i vantaggi, oppure li hai comprati; in entrambi i casi li difendi con le unghie e con i denti. Se sei fuori, sei disposto a pagare un sovrapprezzo per acquistare una rendita che offre molte sicurezze. Ma una volta che sei dentro, giustifichi il sovrapprezzo e lo vuoi, anzi lo devi recuperare. Ci possono essere per i farmacisti mille ragioni scientifiche e di tutela della salute per opporsi alle liberalizzazioni, ma in realtà una sola è quella più potente di tutti: la svalutazione della rendita, l’azzeramento del capitale investito. Non è sicuro che la liberalizzazione delle farmacie provocherà la crescita di dieci punti di PIL, come affermato dal Presidente del Consiglio: ma certamente ridurrà significativamente l’ammontare del capitale da recuperare attraverso la rendita oligopolistica. E dunque ridurrà la rendita, con benefici per tutti. Quanto alle giovani future farmaciste, penso che la loro vocazione si realizzerà pienamente anche senza la rendita: ed auguro loro di poter trarre soddisfazione dalla loro futura professione per quello che essa è, un servizio alla salute delle persone, non per l’essere ricche commercianti laureate.

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Peccati originali.

Peccati originali.

Uno dei miei 25 lettori ha scritto in un commento al post una cosa che condivido integralmente, e perciò la ripropongo: il “peccato originale dei tassisti: acquistano una licenza a 200.000 euro per avere i redditi da fame.” Si potrebbe estendere il peccaminoso concetto anche ai bagnini per quanto riguarda le concessioni di spiaggia ed a tutta un’altra serie di soggetti di cui, ci si augura, si occuperà il Governo di Mario Monti, dopo essersi occupato, purtroppo, delle nostre tasche.

I casi sono due, o forse sono tre: i tassisti (bagnini & co.) sono esseri perfettamente irrazionali e sfiorano l’idiozia; i tassisti (bagnini & co.) sono molto razionali e, soprattutto i secondi, recuperano con l’evasione ottenendo un rendimento adeguato al proprio capitale investito; il mercato delle licenze di tassisti, bagnini & co. fa parte di un gigantesco Ponzi-scheme, che non può essere interrotto, altrimenti qualcuno si fa male.

La mia sensazione è che il terzo caso sia quello più vero, ma anche quello che nessuno commenta, perché alimenta un classico meccanismo di bolla, esteso, per esempio, anche agli immobili ad uso alberghiero, che nessuno ha interesse ad interrompere. Chi ci è dentro, infatti, avendo pagato somme esageratamente elevate, spera di rientrare delle medesime, grazie alla persistenza di un mercato bloccato e protetto. Chi ci è fuori perché mercati di questo genere si caratterizzano per un’altissima opacità, per asimmetria informativa e mancanza di conoscenza dei meccanismi aziendali, oltre che della reale redditività. Qualche anno fa -ancora non me lo perdono- parlando con un bagnino di Cervia che aveva fatto cambiali per pagare a caro prezzo il suo stabilimento balneare, feci piangere, in senso letterale, lui e la sua famiglia, poiché feci capire loro, conti alla mano, che il rientro dall’investimento sarebbe avvenuto solo dopo che qualcun altro avesse comprato il bagno stesso, consentendo loro di uscire dalla bolla e dallo schema Ponzi.

C’è un’ultima considerazione da fare, per così dire “culturale” e riguarda l’approccio mentale interiore che normalmente viene adottato da chi si inventa il mestiere di tassista e/o di bagnino etc.. E’ un approccio tipicamente da rendita. L’approccio di chi vuole pensa a un posto di lavoro garantito e protetto, che consenta di andare avanti in una nicchia, con il tempo che fa aumentare l’investimento iniziale quasi per inerzia. Una rendita, appunto. Legittimo inseguire le rendite, a nessuno è chiesto di farsi piacere le battaglie quotidiane. Però non si chieda neppure al resto del mondo di accettare che qualcuno, “ricuccianamente”, faccia il sodomita con le terga altrui, grazie a tutte queste imperfezioni di mercato. Le quali, com’è noto al Presidente del Consiglio, generano equilibri sub-ottimali. Molto sub.

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Libere tariffe per liberi clienti.

Libere tariffe per liberi clienti.

Dunque ci siamo, il Governo ha reso noto il testo del decreto sulle liberalizzazioni. A parte i taxi, che dovrei prendere il 23 sera a Palermo (ci sarà un bell’abusivo ad aspettarmi?) mi colpisce l’abolizione di tutte le tariffe, minime, massime ed anche intermedie. Fine, ci vogliono preventivi accettati, senza preventivi si viola la deontologia, ergo sanzioni etc…

Tutto bene dunque? Sono stato -sono ancora, anche se non faccio più nulla o quasi di quanto facevo 20 anni fa- dottore commercialista e ricordo bene le tariffe in vigore all’epoca; mi ricordo come le guardassi spesso, quasi fidando di riuscire di trarre da esse conforto e giovamento per un lavoro che avevo iniziato facendo lo studio in cucina. Guardavo le tariffe e moltiplicavo quello che c’era scritto per i lavori che avrei potuto fare o che stavo facendo e per i quali, in verità, non sapevo cosa chiedere. Capii in fretta a cosa servivano le tariffe: quasi a nulla. Si applicavano ai lavori fatti per la legge, ai lavori per il tribunale, alle perizie, ai fallimenti. Oltre che ai collegi sindacali (e chi ti dava un bel collegio sindacale a 25 anni?) ed a poco altro, tutto il resto era già, un quarto di secolo fa, contrattato preventivamente. E c’erano già, un quarto di secolo fa, gli abusivi; mai impuniti più impuniti di questi, a parte forse i parcheggiatori napoletani, hanno calcato le scene italiane.

E’ cambiato qualcosa da allora? A partire dal 1993, l’anno del modello 740 “lunare” così definito dal molto dimenticabile presidente Scalfaro, io ho smesso di fare il commercialista e mi sono occupato solo di banche ed imprese, o quasi. Ma non ho smesso di guardare quanto accadeva in quel pianeta che un tempo era anche il mio; notando che le cose si complicavano sempre di più, che occorreva studiare, esaminare, approfondire in continuazione l’alluvione normativa nel frattempo intervenuta.

So, what? A cosa serve liberalizzare le tariffe? Probabilmente a fischiare l’inizio di una rissa furibonda ai piani bassi del mercato, già affollato da associazioni di categoria, consulenti del lavoro ed amministratori di condominio. Quanto ai piani alti, nessun imprenditore serio cercherà il commercialista in funzione della tariffa, non per le pratiche importanti, non per i lavori che necessitano di intelligenza, esperienza, preparazione: e nessun commercialista accetterà di fare lavori di responsabilità senza adeguata ricompensa (cfr.la liberalizzazione da burla del precedente governo sui collegi sindacali). Tutto questo alzerà il PIL? Ne dubito, così come lo dubito per i taxi (se lo è chiesto anche Pierluigi Battista).

Quanto ai taxi, questa è bellissima

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Licenze taxi come “polizze”: polizze?

Licenze taxi come “polizze”: polizze?

MILANO – Suona il citofono. Le sette di sera. Appartamento (comprato negli anni Cinquanta e poi lasciato dai genitori) in corso Lodi (una lunga direttrice tra centro e periferia) di Giovanni Maggiolo, 47 anni, tassista e ormai sindacalista a tempo pieno (Cgil) dei tassisti.
Per curiosità, chi era al citofono?
«Un collega. Stiamo andando a una trasmissione a Telenova. Ha 49 anni. Ha perso il lavoro. Allora, alla sua età, si è indebitato con gli anziani genitori per comprarsi una licenza da tassista. E ora liberalizzano. La licenza è la sua assicurazione sulla vita: che farà?».

Fin qui un brano dall’articolo di Andrea Galli, sul Corriere.it di oggi. L’intervista procede con la difesa, ovvia, viste le cifre, del sindacalista, e paragoni con il resto d’Europa. C’è qualcosa di marcio nel regno di taximarca, direbbe Shakespeare: c’è qualcosa che assomiglia molto ad una bolla, non ad una polizza, che determina rendite che non possono venire meno, pena la perdita di un capitale investito, appunto, in una licenza. Quello stesso meccanismo per cui, mi si raccontava qualche tempo fa a Firenze, i bar in quella città vengono comprati e pagati con le cambiali, i taxi con denaro sonante ed in nero. E’ quantomeno da dubitare che, eliminato il meccanismo della rendita, liberalizzando le licenze, il prezzo non scenda: perché da parte del tassista non si dovrebbe procedere all’ammortamento ed al recupero del costo della licenza. Il ragionamento potrebbe essere ripetuto per bagnini, farmacisti e notai (in Portogallo i notai sono pubblici ed estremamente economici: in Francia i notai sono avvocati, pagati il giusto, sicuramente meno che in Italia), a tacer del resto, ovvero commercialisti, avvocati etc… Il problema è che quando vuoi tagliare un rendita c’è sempre qualcuno che ha la rendita più rendita della tua. Nell’intervista citata sopra, il sindacalista, infatti, cita i farmacisti, che a loro volta citeranno i tassisti e così via. Ma chiunque capisce da solo che riporre in una licenza il concetto di polizza, ovvero di capitale accumulato, ha qualcosa di malato e di sbagliato in sè. Tanti auguri al ministro Passera.

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Dal nuovo anno mi aspetto compagni coraggiosi (Buon 2012).

Dal nuovo anno mi aspetto compagni coraggiosi (Buon 2012).

(..) è il momento di affondare il muso nei versi dei grandi poeti, nelle pagine dei grandi pensatori. Di guardare le finezze dei capolavori. E di liberare il passo verso nuove tipi di realizzazioni umane e sociali. San Benedetto in un momento di crisi peggiore o simile a questo facendo tesoro di indicazioni antiche e di un irrefrenabile suo desiderio di felicità – lo dice nel prologo alla sua regola – inventò forme nuove di vita comune e salvò tesori del passato. E coi suoi uomini inventò un po’ di cose utili al futuro, tipo certi formaggi e certe colture dei terreni.

Il nuovo sta premendo con un volto ambiguo. Come sempre. L’anno che finisce è un segno. Di una fine più grande. E di un inizio che può esser prodigioso. Non misurabile – come tutti vorrebbero –  in misure di tipo economico. Fan ridere coloro che vogliono leggere questo passaggio di sistema epocale come una crisi economica. La quale è sempre una conseguenza non una causa delle grande crisi nella storia. Come nelle persone.

È il capodanno giusto per guardarsi veramente dentro. Alle radici della vita. E del desiderio che ne abbiamo. E per ripartire con lo sguardo dell’avventura. Dal nuovo anno mi aspetto compagni coraggiosi.

Davide Rondoni