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Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI

Quadri.

Quadri.

“(…) Ma è davvero questo il quadro più realistico? Secondo Equita no. L’Eba per ammissione esplicita non considera ad esempio i potenziali effetti benefici legati alle moratorie e alla garanzie, che di certo rallentano il processo di deterioramento del credito. Da qua il tentativo della Sim di incorporare il set di «indicazioni, input e feedback ricevuti durante questi mesi senza precedenti al fine di produrre la stima più accurata, affidabile e realistica degli effetti» dell’improvviso crollo del sistema, si legge nell’analisi.

Lo studio è partito dall’assunto che, nell’incertezza sugli effetti da Coronavirus, la cosa più ragionevole è che ciò che «era traballante prima del Covid-19, cada a causa della crisi». L’attenzione in particolare si è concentrata sui «prestiti ad alto rischio», quelli che più realisticamente passeranno a default. Lo stock di prestiti che secondo Equita è in bilico è pari a 184 miliardi, ovvero il 13% del portafoglio prestiti, bacino che comprende i prestiti in bonis “forborne” (che evidenziano primi segnali di difficoltà), gli Unlikely to pay e i prestiti oggetto di moratoria.

Ipotizzando che il 50% dei forborne diventi Utp, che ci sia un raddoppio del tasso di decadimento rispetto al 2019 (ovvero del passaggio da Utp a sofferenza) e che il 10% dei prestiti in moratoria diventi Utp, dalla crisi potrebbero dunque emergere per Equita 22 miliardi di crediti malati in più, con un Npe ratio che passerebbe dal 6,9% attuale all’8,4%. Da qua, la necessità come detto di 12 miliardi di accantonamenti extra, pari a 75 punti di Cet 1.

Così l’ottimo Luca Davi sul Sole 24 Ore on line di oggi, in relazione a un report di Equita Sim sugli effetti della pandemia. Difficile non concordare su un assunto incontrovertibile a parere di chi scrive: la crisi impatterà, anzi, ha già impattato in maniera devastante su chi, già prima del suo verificarsi, presentava andamenti economici incerti, indebitamento elevato, insostenibilità degli impegni assunti. Il Governo attualmente in carica, nel tentativo disperato di buttare la palla in tribuna, ha vietato i licenziamenti, i fallimenti e già che c’era, ha vietato pure la classificazione a sofferenza delle posizioni che tali sarebbero. Leggere nel report di Equita Sim, il cui contenuto sarebbe più ottimistico delle stime dell’EBA, che i prestiti in Bonis forborne manifestano già segnali di difficoltà significa evidenziare quello che ha già detto qualcuno parlando in generale del cosiddetto  new normal, ovvero che non saremo migliori, “perché gli uomini non imparano mai” (Francesco Guccini).
Un prestito classificato forborne, come è noto, è tale perché la concessione, l’aiuto, la forbearance che dir si voglia è stata concessa in relazione a difficoltà temporanee (o presunte tali) che grazie al prestito potrebbero essere superate. Il buon senso, prima ancora che le buone prassi, imporrebbero che tale status (forborne e in bonis) sia assegnato sulla base di documenti, carte, piani, progetti, business plan, budget di tesoreria che documentino, appunto la temporaneità. Temo che, come nel 2008 e a seguire, nulla di tutto questo si sia verificato. E temo che, questa volta molto più velocemente di allora, il credito deteriorato emergerà, perché le regole sono molto più chiare e stringenti, senza dimenticare che l’impatto del Covid non è solo sui livelli del CET1 ratio ma anche sulla liquidità (dunque non solo ICAAP ma anche ILAAP). Occorrerà una soluzione di sistema, a livello europeo e internazionale, certamente: la ricapitalizzazione, anche solo “formale” delle banche -attraverso i ratios patrimoniali- è comunque un problema di policy. Ma come si eroga credito in questo momento e come lo si valuta, resta un problema di best practices, che, a quanto pare, nessun decreto riesce a imporre.
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Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Bolla immobiliare Crisi finanziaria Inter

A proposito di bad bank…(pensiero stupendo).

A proposito di bad bank…(pensiero stupendo).

AC Milan's forward Mario Balotelli shows his jersey at the end of the Italian Serie A soccer match between FC Inter and AC Milan at Giuseppe Meazza Stadium in Milan, 13 Settembre 2015. ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO

Ci voleva il Derby per farmi tornare a comprare il Corriere della Sera del lunedì: l’unica cosa buona del tutto è stata ri-leggere il Corriere Economia, poiché il servizio nelle pagine di sport era assai insulso ed il commento dimenticabile. Molto meglio il pretoriano-morattiano Fabio Monti, ma tant’è…

Detto del Derby, Fabrizio Massaro (omen nomen?) mi fa compagnia in una cena solitaria di #turismofinanziario e mi fa riflettere sulla bad bank, l’oscuro oggetto del desiderio di molte banche. Il meccanismo è noto, ma lo ripeto a beneficio dei miei piccoli (studenti) lettori: una società-veicolo compra i crediti non performing (o NPL) dalle banche, liberando i bilanci delle stesse dall’ingombrante presenza del credito deteriorato. Le banche incamerano qualche spicciolo, la differenza tra valore di libro del credito e valore di mercato sono perdite. Hic sunt leones. Una bad bank fatta per salvare un intermediario creditizio dai suoi crediti deteriorati compra i crediti ad un valore superiore a quello di mercato e le perdite gravano in misura minima sui bilanci bancari: in Italia è già successo con il Banco di Napoli, le perdite le abbiamo pagate tutti. Ma non c’erano gli euri, la disciplina degli aiuti di Stato era meno stringente e tante altre belle (?) cose. Ora non è più così: e se la bad bank dovesse essere varata, anche con il favore della UE, resterebbe a carico del contribuente l’onere dell’operazione. Meditare necesse est.

Solo un piccolo particolare: il buon Massaro giustamente parla nel suo articolo dei problemi legati alla giustizia civile ed alla lunghezza dei relativi processi (nonché delle esecuzioni, immobiliari e non), oltre che della natura dei crediti deteriorati, a suo dire più facili da stimare se di natura immobiliare e più complessi se relativi ad imprese. Trascurando, almeno all’apparenza che, con buona pace di chi oggi criticava Orfini su Twitter, le banche usano i soldi dei risparmiatori e devono applicare i criteri di “sana e prudente gestione“: ovvero, non solo non c’è banca al mondo che non richieda le garanzie ma, soprattutto in Italia, le garanzie hanno supplito al deficit di tecnica bancaria per fare prestiti a tutti, imprese soprattutto comprese. Fatta la bad bank ed eliminate le scorie nucleari degli NPL, chi impedirà alle banche di continuare a fare cattivo credito? Non la vigilanza europea, non allo stato degli atti: e, vista la devastazione operata dall’inizio della crisi, non la Banca d’Italia. Pensiero stupendo, nasce un poco strisciando: la bad bank incentiva l’azzardo morale e toglie le castagne dal fuoco. Alla Banca d’Italia.

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Banca d'Italia Banche BCE Crisi finanziaria

Se le perdite su crediti vanno (?) in ferie.

Se le perdite su crediti vanno (?) in ferie.

chiuso-per-ferie

Marco Ferrando sul Sole 24 Ore del 15 agosto descrive l’effetto della riduzione delle perdite su crediti sugli utili semestrali delle banche. Al riguardo “(…) emblematico il caso del Monte dei Paschi, che ha sfiorato i 200 milioni di utili nel semestre, una cifra non lontana dalla riduzione (-224 milioni) degli accantonamenti, scesi da 1,2 miliardi a 984 milioni, capitalizzando le pulizie straordinarie richieste dalla Bce e contabilizzate nel 2014; anche se la banca aspetta ancora l’esito d’ispezione condotta dalla Bce a inizio 2015 su 30 miliardi di crediti immobiliari.

Premesso che le semestrali non sono maccanicamente riproducibili a fine anno, come semplice spalmatura su due semestri di un risultato parziale, una riduzione delle perdite su crediti (la famigerata voce 130 del bilancio bancario) così determinante per gli utili fa nascere alcune riflessioni. La prima riguarda la capacità delle banche di prezzare il rischio correttamente (il c.d. pricing per gli amici di Albione) e di ricomprendere nello spread tra tassi attivi e passivi la probabilità di default del debitore: su questo punto l’esperienza ultradecennale nell’applicazione dei rating genera più di una perplessità. E dove non soccorrono gli automatismi, come si è visto, non pare sufficiente l’attuale preparazione degli addetti fidi (e/o di dirigenti e consigli di amministrazione). Detto in altre parole, lo smaltimento del picco del credito deteriorato non significa affatto che non se ne genererà del nuovo: e i tagli di personale e di costo non depongono a favore di una maggiore severità nel vaglio del merito di credito.

La seconda riflessione riguarda il tema del trattamento contabile delle perdite su crediti: nell’articolo citato si parla di perdite capitalizzate, sia pure a fronte di pulizie straordinarie richieste dalla BCE.  Si dovrebbe chiedere alle tante piccole banche, soprattutto Bcc, commissariate o gravemente sanzionate, che ne pensino di un simile trattamento, che manifesta disparità di vedute da parte del vigilatore ed una palese malevolenza nei confronti delle banche locali, soprattutto da parte di chi le ha finora vigilate e continuerà a vigilarle da via Nazionale. Se quelle pulizie straordinarie fossero passate dal conto economico, come sarebbe la semestrale di MPS? E se tutte le banche avessero potuto capitalizzare partite analoghe ora il sistema come sarebbe? Sano, come la sana e prudente gestione?

Infine, il problema del credito deteriorato non è contabile e neppure di creazione di un mercato per gli NPL (non performing loans). E’ come gettare via il termometro ed ignorare la febbre o portare le scorie nucleari in Africa, tu non le vedi più, ma ci sono ancora e fanno danni. La vera prova per la vigilanza, sia italiana sia europea, sarà sulla capacità di erogare credito di qualità, ricercando l’unica efficienza che può servire all’economia, quella allocativa.

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ABI Alessandro Berti Banche Crisi finanziaria

Pannicelli caldi.

Pannicelli caldi.

Impacchi_camomilla

Quando, una vita fa, facevo ancora un mestiere vagamente assomigliante a quello del commercialista, ricordo che una delle domande più frequenti da parte degli imprenditori riguardava il pagamento delle imposte: anzi, la domanda esattamente era: “Ma adesso posso scaricare questo anzichè quello, la macchina anzichè il cellulare etc…?” Nessuno che mi abbia mai chiesto come fare a monitorare la redditività o a controllare i costi, l’utile pre-tax era concepito come normale, scontato.

Leggere dei provvedimenti del Governo Renzi sulla deducbilità dei crediti bancari come toccasana di tutti i mali fa sorridere: se da una parte pone rimedio ad un’evidente incongruità (le perdite su crediti si verificano e basta, e quando si spesano in bilancio devono poter essere dedotte, tutte, al 100%, come avviene in tutti gli altri Paesi), dall’altro non rende le banche più capitalizzate e, improvvisamente, più disponibili ad erogare credito. Le attività fiscali erano e sono un elemento negativo del patrimonio di vigilanza, ma non faranno lievitare il capitale di rischio di banche che generano perdite su crediti ed intaccano il patrimonio non per colpa delle attività fiscali, ma perché non sanno più fare il loro mestiere. Il quale, come ricorda la circolare 263 di Bankitalia (che forse qualche giornalista ed anche qualche tecnico di associazione di categoria dovrebbe cominciare a studiarsi) consiste nella misurazione del rischio.

Se si misura correttamente il rischio lo si remunera, e attraverso lo spread, come sa ogni studente di economia, si coprono le perdite: nè servirà a fare buon credito accelerare le procedure di recupero, se, appunto, il primo recupero non comincia dalla “sana e prudente gestione“. Diversamente, ridurre il carico fiscale sotto la riga dell’utile pre-tax, lasciando che sopra continui a farla da padrone la voce 130 è, appunto, un impacco di camomilla. Dà sollievo, ma dopo che lo hai tolto non ti trasformi in Uma Thurman: rimani Cita, Cita Hayworth.

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI

Rastrellamenti (la gestione del credito deteriorato 1).

Rastrellamenti (la gestione del credito deteriorato 1).

RoyalMarines-in-Afghan

Oggi ho svolto la prima lezione di un corso di due giornate sulla gestione del credito deteriorato, destinato a esperti dell’area credito di alcune banche di credito cooperativo. Nonostante passino gli anni non smetto di meravigliarmi per le aspettative che tali corsi ingenerano (e che non esito a definire mirabolanti o, più spesso, miracolistiche) sia nei partecipanti, sia, più probabilmente, in coloro che li hanno iscritti. La sensazione, in effetti, è quella di dover enunciare rimedi immediati, offrire ricette per un pronto sollievo, come i cerotti callifughi, e via dicendo: aspettative, da parte del sottoscritto, immancabilmente deluse.

In effetti, l’unico modo per “gestire” il credito deteriorato è evitare che si generi, anzitutto prevenendo, con una seria analisi dei fondamentali delle imprese (e quindi della capacità di reddito e di rimborso, storiche e prospettiche) ed una valutazione attenta di natura, qualità e durata del fabbisogno finanziario delle imprese.

Tuttavia, poiché il credito deteriorato esiste, e non può essere ignorato, se non ci si vuole limitare ad una presa d’atto dell’insorgere irreversibile di una crisi d’impresa, occorre affrontarlo, cominciando da qualche parte. Poiché la domanda (con rispetto parlando per chi spesso me l’ha rivolta, un po’ scontata) è sempre quella: “Da chi cominciamo?” la risposta che non posso mancare di dare è sempre quella: dai peggiori. Dapprima convocandoli per sapere cosa intendono fare da grandi, se abbiano oppure no un piano economico-finanziario di fuoriuscita dalla crisi, se siano consapevoli di quello che stanno attraversando.

Altrimenti, c’è solo un sistema: il rastrellamento.

(continua)

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Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo BCE Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Vigilanza bancaria

Default è quando Banca Centrale Europea dice (La misurazione del rischio di credito 3: quello che le imprese neppure lontanamente immaginano).

Default è quando Banca Centrale Europea dice (La misurazione del rischio di credito 3: quello che le imprese neppure lontanamente immaginano).

Vujadin-Boskov

Riassunto delle puntate precedenti: come si misura il rischio di credito? E cosa comporta tale misurazione nei comportamenti e nei rapporti bancari?
Dopo gli incagli oggettivi, le sofferenze oggettive: ovvero se ci sono criteri per rendere meno opinabile la constatazione dello stato di difficoltà temporanea, devono esisterne altrettanti per dichiarare lo stato di insolvenza irreversibile e conclamato.
In altre parole, la dichiarazione dello stato di insolvenza non a sentimento, non dopo un bel “parliamone”, non in una riunione del consiglio di amministrazione nella quale si dice che “però poi i suoi dipendenti sono “mutualizzati” da noi” o ancora “però così poi smette di pagare i fornitori”. No, semplicemente una bella definizione di default oggettivo, rispetto alla quale non resta che prendere atto che la posizione del cliente è da svalutare, portare a sofferenza etc…
Anche in questo caso, se ci si chiede la genesi di un simile provvedimento (per amor di precisione il tutto trovasi all’art.178, regolamento UE 575/2013) è facile rintracciarla nella ritrosìa delle banche –in questo sempre incoraggiate da imprese altrettanto restìe a prendere atto della realtà- a dichiarare lo stato di deterioramento di crediti derivanti da operazioni spesso nate male e proseguite peggio.
E poiché la discrezionalità in materia implica, molto semplicemente, la sostanziale falsità dei bilanci bancari e l’inconsistenza del patrimonio in rapporto ai rischi, meglio eliminare la discrezionalità.
Ecco come:
“Il default di un debitore:
1. Si considera intervenuto un default in relazione a un particolare debitore allorché si verificano entrambi i seguenti eventi:
a) la banca giudica improbabile che, senza il ricorso ad azioni quale l’escussione delle garanzie, il debitore adempia integralmente alle sue obbligazioni creditizie verso la banca stessa;
b) il debitore è in arretrato da oltre 90 giorni su una obbligazioni creditizia rilevante verso la banca (n.d.a.: ovvero è in situazione di incaglio oggettivo).”
E ancora:
• “la rilevanza di un’obbligazione creditizia in arretrato è valutata rispetto a una soglia fissata dalle autorità competenti. Tale soglia riflette un livello di rischio che l’autorità competente ritiene ragionevole;
• gli enti hanno politiche documentate in materia di conteggio dei giorni di arretrato (una banca popolata da genii, recentemente commissariata, si vantava di aspettare 99 rate di impagato per dichiarare l’incaglio NdA) Queste politiche sono applicate in modo uniforme nel tempo e sono in linea con i processi interni di gestione del rischio e decisionali dell’ente”.
Inoltre, a parte ovviamente incagli, fallimenti e ristrutturazioni del debito con saldo e stralcio, si ha default quando:
• “la banca riconosce una rettifica di valore su crediti specifica derivante da un significativo scadimento del merito di credito successivamente all’assunzione dell’esposizione (traduzione dell’autore: bisogna monitorare il credito, sempre, e soprattutto bisogna evitare che scada…);
• la banca cede il credito subendo una perdita economica significativa”.

Infine, tanto per non dimenticare che il merito di credito non è un’opinione, la stessa direttiva disciplina all’articolo 179 “i requisiti generali per il processo di stima”, e in particolare, stabilisce che:
• “Le stime di basano sull’esperienza storica e su evidenze empiriche e non semplicemente su valutazioni discrezionali (…) Quanto più limitati sono i dati di cui dispone una banca, tanto più prudente deve essere la stima”.

L’ultimo punto merita un piccolo commento, rimandando altre considerazioni alla prossima puntata.
Esperienza storica ed evidenze empiriche fanno rientrare dalla porta l’analisi fondamentale, quella che i rating avevano scacciato nelle grandi banche e quella che la conoscenza diretta (e la storicità del rapporto) avevano fatto accantonare nelle piccole.
Non solo: appare evidente come la conoscenza del cliente non possa che essere fondata su dati (bilanci, performance, etc…) e non su mere opinioni di confidenza: “In Dio infatti noi confidiamo, ma tutti gli altri ci portino dei dati”, ci ricorda uno studioso USA.
Ne deriva che (chissà se di queste cose Sebastiano Barisoni ne parla a Radio 24?) minori sono i dati disponibili, scarni i bilanci e semplificate le contabilità, minori dovranno essere i rischi assunti: in altre parole, le idee le finanzi qualcun altro.

(segue: la puntata precedente è stata pubblicata il 1 luglio 2014)

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Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria Indebitamento delle imprese PMI Unicredit

Da dove cominciamo?

Da dove cominciamo?

federico_ghizzoniCi sono due domande che mi sento rivolgere quasi ogni volta che mi capita di parlare in banca di credito deteriorato. La prima è praticamente automatica ed arriva dopo avere detto che occorre porre mano alle posizioni incancrenite, quasi sempre appartenenti a “clienti storici”, “nominativi sperimentati”, “gran lavoratori”, “ottima moralità”: come facciamo a dirglielo? Risposta: in italiano.

La seconda domanda, che segue lo sconcerto nell’apprendere che la lingua italiana è ricca di espressioni per dire ad un cliente insolvente che deve rientrare è, invece: da dove cominciamo? Anche oggi ho risposto con un’ovvietà: dai peggiori. D’altra parte, persino un’idiota capirebbe che mettere a rientro i migliori non è cosa, così come non funziona, nel dubbio, il lasciare tutto com’è. Soprattutto nelle piccole banche, dove il localismo viene troppo spesso scambiato per assistenzialismo, è naturale che non ci si decida, in particolare se si è sempre deciso di non decidere, ma le regole di Basilea 3 e le ispezioni di Bankitalia urgono, dunque si deve scegliere. Sul tema sarà opportuno ritornare, perché il ruolo delle banche come “agenti della contabilità sociale” di schumpeteriana memoria non può essere troppo a lungo tralasciato: diversamente sarebbero vuota retorica le frequenti invocazioni al mercato proprie di tanti che, tuttavia, al momento di staccare la spina si distinguono per doti insospettabili di misericordia economica.

Tant’è. Ma quanto comunicato da Unicredit, i cui conti sono stati affossati da accantonamenti per 13,7 miliardi (+46,8 miliardi su base annua) dimostra due cose, ovvero a)-che si può fare pulizia nei conti: b)-che dai conti ripuliti si può ripartire per generare reddito, perlomeno nelle intenzioni. Riporta Il Sole 24Ore che “per quanto riguarda il Piano Strategico 2013-18, che prevede un utile netto di 2 mld nel 2014 e di 6,6 mld a fine periodo, questo «è basato su fondamentali solidi, una forte cultura del rischio e uno scenario macro-economico in miglioramento» ha sottolineato Ghizzoni.”
C’è, soprattutto, una componente fortissima di riduzione dei costi del personale nel piano strategico di Unicredit, e questo non può essere dimenticato (nemmeno dalle imprese alla ricerca di una banca di “relazione”: non si fanno relazioni senza il personale); al contempo, intervenire sui costi operativi e sulla famigerata voce 130 del conto economico delle banche libera patrimonio ed aiuta il reddito solo se tali azioni sono accompagnate dalla volontà di sostenere le imprese, attraverso quella “forte cultura del rischio” menzionata da Ghizzoni. La sfida raccolta da Unicredit, in anticipo su molti concorrenti, consiste allora nel sapere gestire le relazioni con meno personale ma più preparato, più attento al rapporto con il cliente e maggiormente in grado, almeno sperabilmente, di valutarne correttamente il fabbisogno finanziario. Se Unicredit non tornerà a vendere derivati, come ai tempi di Profumo, la sfida lanciata con la pulizia dei conti ed i progetti per il dopo riguarda non solo le altre banche, ma tutto il sistema delle imprese, chiamato a scegliere e a farsi scegliere da finanziatori inevitabilmente più selettivi: nella consapevolezza che l’asticella, rispetto al passato, è molto, molto più in alto.

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ABI Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria Indebitamento delle imprese Mario Draghi PMI

Se misurare la febbre non basta.

Se misurare la febbre non basta.

Bankitalia_ignazio-visco

Per la prima volta dopo un po’ di anni di frequentazione assidua, non ho potuto partecipare all’Assemblea Generale di Banca d’Italia. Il che ha fornito lo spunto per discussioni che, intrecciate alle considerazioni finali del Governatore Ignazio Visco, hanno visto il sottoscritto ed i suoi due compagni di avventure lavorativo-bancarie questionare su tutto senza trovarsi d’accordo (quasi) su niente, in particolare in materia di crisi d’impresa, ruolo e compito delle banche, e come al solito leninianamente sul “che fare?”. Sulle discussioni sarà il caso di ritornare, anche se la sensazione ricevuta da molti incontri in questo periodo è sempre quella, una sola ed unica domanda:”Diteci cosa dobbiamo fare, qualunque cosa sia.”  Domanda che mi sono sentito rivolgere indifferentemente da amministratori, soprattutto di banche locali, direttori generali, preposti, addetti all’area credito, risk controller ed addetti al monitoraggio, oltre che, ovviamente, da imprenditori: tutta la pletora di coloro che maneggiano i problemi dle credito deteriorato. Proprio da questa domanda continua e insistente nasce il disagio per un’affermazione lapidaria fatta propria dal Governatore ieri.

A fronte del deterioramento dei prestiti, la Banca d’Italia ha intensificato il vaglio sull’adeguatezza delle rettifiche di valore effettuate dagli intermediari. Sono state condotte verifiche a distanza e in loco, chiedendo alle banche di vagliare nel continuo l’adeguatezza del tasso di copertura dei prestiti deteriorati e, quando necessario, sollecitando interventi correttivi. Questa azione continuerà, anche in collegamento con gli analoghi esercizi concordati in sede internazionale, in vista della vigilanza unica europea.

Intensificare il vaglio sull’adeguatezza delle rettifiche di valore, ovvero sollecitare la corretta e tempestiva appostazione a voce propria di osservazioni, incagli e sofferenze (i tre gradini della scala del rischio di credito) e, di conseguenza, verificarne la copertura in termini patrimoniali, sembra l’unica preoccupazione dell’ex-prestatore di ultima istanza (il lender of last resort della teoria finanziaria anglosassone). Che privato della facoltà di battere moneta e, ad evidenza, superato nel suo ruolo di regulator da Francoforte (e grazie a Dio, dall’attivismo di Mario Draghi),  si limita a misurare la febbre, ovvero la consistenza del credito deteriorato. Senza poi avere, almeno all’apparenza, altre mosse che quelle di ispezionare, sanzionare e, rimpinguando il triste bottino della voce 130 del conto economico bancario (le rettifiche di valore, appunto), constatare il decesso. Forse Mario Draghi ha più strumenti per avere più fantasia: ma il ruolo che Via Nazionale ha deciso di giocare nella crisi assomiglia sempre più a quello del coroner, quella figura legale del diritto USA e UK che, sopraggiunta sul luogo del delitto, certifica il trapasso del de cuius. Ruolo fondamentale, ma passivo, compito doveroso e ingrato, necessario e triste, ma insufficiente (e infatti poi arrivano CSI, Law and Order, le unità speciali del Bureau etc..). Perché alla fine ciò che si dovrebbe intensificare sono le cure, non il numero di volte in cui gli infermieri passano a prendere la temperatura: alla fine, sempre più spesso, sarà stata l’ultima.

 

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Banche Banche di credito cooperativo Capitale circolante netto operativo Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela

L’insostenibile pesantezza del mettere a rientro un cliente (storico).

L’insostenibile pesantezza del mettere a rientro un cliente (storico).

Sisyphus_by_von_Stuck

Capita spesso, ultimamente, di parlare di credito problematico, ricevendo, quasi ovunque, la stessa risposta: vede professore, il problema non è il nuovo credito, quello quasi non lo eroghiamo più, ma sono le vecchie posizioni, incancrenite e delle quali non sappiamo cosa fare. Come affermava un anno fa il presidente di una Cassa Rurale Trentina, “non riusciamo a fare uscire il morto di casa“; e un suo collega rinforzava il concetto dicendo che “facciamo tre o quattro funerali allo stesso morto“.

Se è vero, d’altra parte, che chiedere a un cliente di rientrare dei prestiti ottenuti non è una passeggiata (parafrasando Mao Zedong, non si può fare con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia: mettere a rientro un cliente è un atto di violenza), il rispetto dovuto alla normativa ed ai regolamenti ma, soprattutto, alla tutela degli interessi dei depositanti, impone di scegliere e di decidere. Avviene così che, parlando in aula, che si tratti di Consigli di amministrazione o di responsabili dell’area credito, di analisti fidi o semplici preposti di filiale, la domanda finale sia sempre quella: “Sì, ma come facciamo a dirglielo?” La risposta più semplice, ma lontana dalla cultura delle nostre banche e delle persone che vi lavorano, è: “In italiano“. Ovvero, scegliendo da una lingua assai articolata e ricca come la nostra le parole giuste, si può spiegare al cliente per quale motivo si ritiene di dovergli chiedere indietro i soldi; solo, deve essere salvaguardata, altrimenti il rapporto banca-impresa diventa patologico (Campodarsego docet), quella che io chiamo “una cordiale serietà“. Un atteggiamento, in altre parole, che inizia prima del default o del decadimento della posizione e che si concretizza nel mettere il cliente di fronte alle sue responsabilità, che sono quasi sempre collocate a livello di conto economico e di margine operativo e non dipendono dalla banca. Tutto questo è faticoso, perché il rapporto è faticoso: tutti i rapporti, se sono veri, sono faticosi, anche quelli tra banca e impresa. Ma è necessario, altrimenti non ci muoveremo mai da questo stallo che, oltretutto, in particolare nelle realtà territorialmente più radicate, riceve da ultimo l’obiezione insuperabile:”Ma è un cliente storico! Come facciamo a dirglielo?

 

P.S.: per la cronaca, anche Giuda era un apostolo, ed era storico (era nei primi Dodici). Solo che poi Lo ha tradito. Il cliente storico ti lascia la sofferenza leggendaria.

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ABI Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo BCE Crisi finanziaria Liquidità Mario Draghi

La nostra specialità? La liquidità.

La nostra specialità? La liquidità.

Maximilian Cellino, in un articolo sul Sole 24 Ore di ieri intitolato Credit crunch. La ricetta del Club Ambrosetti: separare retail da investment bank a livello europeo riporta la lapidaria ricetta della grande maison italiana di consulenza: «Più liquidità senza modello universale». Nel servizio si afferma che “secondo il rapporto la riforma potrebbe far risparmiare agli istituti italiani 33 miliardi in aumenti di capitale.

Il rapporto riprende l’idea, fatta propria anche dall’ABI, che non ha mai voluto intendere le ragioni dlel’EBA, che poiché i rischi sono maggiori nell’attività finanziaria e di trading, sarebbe ingiusto penalizzare le banche italiane che, al contrario, sono da sempre orientate all’attività bancaria tradizionale. I nuovi requisiti patrimoniali, applicati indiscriminatamente, sarebbero pensati per banche anglosassoni, non per le nostre: dunque, meglio evitarne l’applicazione, mettendo in soffitta il modello della banca universale e ritornando a quello della banca specializzata.

Ora, a prescindere dalle discussioni sull’efficienza allocativa di un sistema finanziario che, orientato alle banche, adotta il modello della banca universale anzichè di quella specializzata, è quantomeno discutibile che in Italia, stante il TUB del 1993, il modello applicato ed utilizzato sia effettivamente quello della banca universale. Quest’ultima, in effetti, sembra più una cornice legislativa, all’interno della quale il quadro disegnato dai protagonisti del sistema bancario italiano ricalca tuttora forme e colori della banca specializzata. Se così non fosse non si spiegherebbero le fatiche così grandi e così drammaticamente manifeste nei bilanci di quelle banche, le Bcc, che: a)-erano le più capitalizzate di tutto il sistema; b)-hanno fatto sempre e solo il mestiere di raccogliere il risparmio presso le famiglie ed affidare le Pmi.

Il problema del capitale è un problema vero, molto sentito da tutti i grandi azionisti delle banche maggiori, che intravvedono un futuro gramo fatto di nessun dividendo e di portafoglio sanguinante. Ma è agitato impropriamente come spauracchio per le imprese, e dunque per la politica e per le autorità di Vigilanza, perchè sarebbe la via per l’ineluttabile credit crunch. Il contributo presentato a Cernobbio, dove oggi arriverà Caronte-Profumo, sotto questo profilo non si discosta di molto dalla pubblicistica pro-ABI degli ultimi mesi.

Di una cosa va però dato atto al rapporto, ed è di rimettere al centro della questione la capacità delle banche di saper valutare il merito di credito: argomento di cui nessuno, a cominciare dal noto avvocato calabrese presidente dell’ABI, ha mai parlato, quasi che le sofferenze e la bolla immobiliare fossero il frutto di sfortunate coincidenze e non di un’ormai evidente incapacità di valutazione e gestione del rischio di credito, resa più acuta dalla crisi. Da ultimo, e non è poco, si parla anche di imprese, finalmente smettendo di blandirle, ma richiamandole alle loro responsabilità. Queste ultime «si devono comportare in modo diverso nei confronti delle banche, offrendo maggiore trasparenza e riducendo la commistione fra patrimonio dell’imprenditore e azienda».

Manca solo un’annotazione, a margine del rapporto: ringraziare Mario Draghi e quello che sotto di lui sta facendo la Bce. Perché con buona pace della signora Merkel (che non gradisce) e di tutti i premi Nobel del PdL, (che strepitano chiedendosi dove sono finiti i soldi della Bce), le richieste di rientro e le sofferenze del sistema sarebbero ben più elevate. Con vere, gravissime conseguenze sulla liquidità.