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Nessuno tocca le Bcc (ci ha già pensato Visco).

Nessuno tocca le Bcc (ci ha già pensato Visco).

Bankitalia_ignazio-viscoIl tweet rassicurante del Presidente del Consiglio ieri sera “nessuno tocca le bcc”, appena terminato il Consiglio dei Ministri, è senza dubbio indirizzato a tutti coloro che paventavano una modifica della normativa in materia bancaria penalizzante per le banche di credito cooperativo. Il testo uscito dal Consiglio dei Ministri ha stralciato le norme in materia di bcc e dunque, per il momento, nulla di nuovo sul fronte occidentale. Forse.

L’apertura di una falla sul fronte della difesa di banche “differenti”, poichè improntate su un modello mutualistico e non di mera ricerca del profitto per ora tocca sole le grandi popolari, costrette (malgré-lui? ne dubito…) a diventare società per azioni, dotate di un attivo superiore ad una certa soglia. Nei fatti sancisce, prima ancora che un disfavore del legislatore, un’incomprensione culturale, un essere fuori dal tempo che la mancanza di testimonianza e di valori realizzati ha aggravato. Non si comprende il perché debbano esistere banche di credito cooperativo, piuttosto si aderisce a Banca Etica, in nome di valori che si sente difettare, ma le piccole banche, le banche di prossimità sembrano passate di moda. Eppure non è così lontano il 2008, quando Giulio Tremonti, con il suo bacio della morte, lodava le “piccole-banche-che-continuano-a-fare-credito” contro le grandi e cattive banche, colpevoli del credit-crunch.

Sono passati quasi sette anni di crisi e le piccole banche stanno peggio di prima: le loro virtù -minori sofferenze sugli impieghi, migliore capacità di assistenza alla clientela, capacità di comprendere le esigenze delle Pmi- si sono volatilizzate, non contano più o, più semplicemente, non ci sono più. I numerosi commissariamenti di piccole banche proposti da Banca d’Italia ed eseguiti dal Mef senza batter ciglio si sono accaniti sulle Bcc senza che nessuno alzasse un dito per difenderle, a cominciare da quei genii del senso dell’opportunità della Lega Nord: ed è chiaro che l’obiettivo della Vigilanza, secondo il classico trade-off della teoria finanziaria, è la stabilità, a scapito dell’efficienza. Si potrebbe aggiungere che l’operato di Banca d’Italia segue il vieto e frusto paradigma (mai dimostrato), che la dimensione più grande incorpori i vantaggi della stabilità, dell’efficienza, delle economie di scala: ho cominciato a fare il professore studiando queste cose e ancora non ci cavo le zampe, ci sarà un motivo.

Infine: è persino doloroso assistere allo scempio del credito cooperativo operato dalla Vigilanza, nella totale assenza e/o indifferenza non appena dei referenti politici (già: quali?) ma, soprattutto, delle rappresentanze istituzionali, Abi e Federcasse. Ma se dei primi è spiegabile l’indifferenza, dei secondi è peccato mortale l’ignavia. Che nulla, nemmeno la volontà di sviluppare un nuovo modello associativo, calato dall’alto, può giustificare.

 

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Alessandro Berti Analisi finanziaria e di bilancio Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Università USA

Chi non ha sensibilità, non ha etica (Su etica e professione).

Chi non ha sensibilità, non ha etica (Su etica e professione).

In una società in crisi economica e sociale: il ruolo del commercialista.

Il codice deontologico

Relazione a cura del

Prof.dr.Alessandro Berti

Associato di Tecnica Bancaria ed Economia degli Intermediari Finanziari

Scuola di Economia

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

 

Buongiorno a tutti.

Ringrazio anzitutto l’Ordine che mi ha invitato, nella persona della Collega Silvia Cecchini, dandomi l’opportunità di riflettere, per preparare questa mia relazione, su un tema così importante. Ringrazio ognuno di Voi che, in queste giornate così convulse, come da tradizione, ha deciso di investire un po’ del proprio tempo per condividere queste riflessioni.

Mentre pensavo all’ordine del mio intervento, avevo ben chiare due affermazioni, che ho spesso sentito riecheggiare nella mia esperienza ma che, per la prima volta, ho udito in un’aula dell’Università Cattolica, quando ero matricola a Economia.

Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo le menzogne, noi che non sappiamo cosa sia la verità.” Così si esprime André Malraux, sottolineando una vera e propria disperazione rispetto alla propria impotenza etica.

E Franz Kafka afferma: ”Anch’io come chiunque altro ho in me fin dalla nascita un centro di gravità che neanche la più pazza educazione è riuscito a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma in un certo qual modo non c’è più il corpo relativo.” Il che è come dire che l’uomo ha un’esigenza di significato unitario, per sé e per le cose che fa, per tutto, ma che la vita è distante dall’ideale, il “corpo relativo”, appunto, è altrove.

Perché parlare di ideale, se in finale dobbiamo semplicemente discutere il significato (penso che usare il verbo “illustrare” sarebbe offensivo per ognuno di Voi, quasi che io, pure iscritto all’Albo, debba spiegare a dei Colleghi un elemento così importante del proprio lavoro e della propria appartenenza professionale) di un codice il cui scopo è sintetizzato nella definizione di deontologia, ovvero un neologismo coniato dal filosofo inglese J. Bentham, che appare per la prima volta nel 1834 in un suo trattato postumo; dal greco: [deon] dovere e [logos] discorso, studio. Ovvero, ad essere letterali e riduttivi, un insieme di regole comportamentali.

La deontologia parte dal presupposto che il fine non giustifica i mezzi, ma che il fine è il mezzo. La questione sarebbe ingiustamente relegata a codici etici per professioni ad elevato rischio morale –psicologi, medici, avvocati-  che pure offrono un campo amplissimo di indagine, se non si tenesse conto che essa sorge sulla base di un presupposto molto più grande.

Il presupposto di tutto sta come sempre nella libertà individuale (e per conseguenza nella posizione di potere che questa attribuisce a chi esercita una determinata professione), ponendo la necessità di un fondamento etico che stia a monte del libero arbitrio del singolo. Ho detto fondamento etico, e non regole, di proposito: più avanti spiegherò il perché.

Quale sia il fondamento etico del nostro codice, ciò che ci viene proposto dall’Ordine Nazionale (secondo me ad un livello minimo, elementare: che non significa ridurne la portata, ma semplicemente porre la questione della responsabilità personale, che va ben oltre il rispetto di tale livello minimo di regole) è ben sintetizzato nell’articolo 5, che mi permetto di rammentarvi:

 

Articolo 5

INTERESSE PUBBLICO

1. Il professionista ha il dovere e la responsabilità di agire nell’interesse pubblico.

2. Soltanto nel rispetto dell’interesse pubblico egli potrà soddisfare le necessità del proprio cliente.

Il tema dell’interesse pubblico coincide, a mio parere, con quello che mi sembra più rispondente al sentire di ognuno, non appena in questa fase storica ma più in generale, del bene comune. È facile individuare, agli antipodi del bene comune, il bene individuale o meglio, l’esasperazione della soddisfazione di quest’ultimo, l’individualismo.

“L’individualismo” -afferma Juliàn Carròn in un intervento del 2009- “è un tentativo di risolvere i problemi vecchio come l’uomo, implicando il rapporto tra il proprio bene e il bene altrui, la tensione tra io e comunità. Il fatto di non vivere da soli, bensì di essere sempre all’interno di una comunità, ci costringe a decidere in continuazione il modo di affrontare questo paradosso.

Noi siamo chiamati a vivere questa sfida in un contesto culturale in cui la risposta a questa tensione sembra palese: l’individualismo. Detto con una frase: io raggiungo meglio il mio bene se prescindo dagli altri. Di più: l’individualista vede nell’altro una minaccia per raggiungere lo scopo della propria felicità. È quanto si può riassumere nello slogan che definisce l’atteggiamento proprio di questa mentalità: homo homini lupus.

Ma dicendo così la modernità si mostra incapace di dare una risposta esauriente, vale a dire che contempli tutti i fattori in gioco. Infatti la concezione individualista risolve il problema cancellando uno dei poli della tensione. E una soluzione che deve eliminare uno dei fattori in gioco, semplicemente, non è una vera soluzione.

Fino a quale punto questa impostazione è sbagliata si vede dal fatto, emerso clamorosamente, della sempre più urgentemente sentita richiesta di regole. Quanto più l’altro è concepito come un potenziale nemico, tanto più viene a galla la necessità d’un intervento dall’esterno per gestire i conflitti. Questo è il paradosso della modernità: più incoraggia l’individualismo, più è costretta a moltiplicare le regole permettere sotto controllo il “lupo” che ognuno di noi si rivela potenzialmente essere. Il clamoroso fallimento di questa impostazione è oggi davanti a tutti, malgrado i tentativi di nasconderlo. Non ci saranno mai abbastanza regole per ammaestrare i lupi. Questo è l’esito tremendo quando si punta tutto sull’etica invece che sull’educazione, cioè su un adeguato rapporto tra l’io e gli altri. Ma non è tanto l’incapacità delle regole a costituire il problema. La vera questione è che l’individualismo è fondato su un errore madornale: pensare che la felicità corrisponda all’accumulo.

In questo la modernità dimostra ancora una volta la mancanza di conoscenza dell’autentica natura dell’uomo, di quella sproporzione strutturale di leopardiana memoria. Per questo l’individualismo, ancor più che sbagliato, è inutile per risolvere il dramma dell’uomo. Inoltre occorrerebbe aggiungere anche un ulteriore inganno, proclamato dal potere dominante: che si possa essere felici a prescindere dagli altri.” (J.Carròn, 2009)

Vi sono numerosi esempi di quanto affermato da Carròn, a partire dal più elementare, e drammatico, di tutti: la pena di morte, negli Stati degli USA dove è in vigore, non ha eliminato il crimine, né lo ha disincentivato. La più severa sanzione posta a tutela delle regole, la perdita della propria vita, non impedisce che l’uomo possa violarle.

Ancora, e venendo ad esempi più vicini alla sensibilità di chi è presente oggi, alla sensibilità di chi deve paragonare etica ed affari quotidianamente: le pene, per certi versi bizzarre (ergastoli plurimi, condanne secolari), ancorché severissime in vigore negli USA (45 anziché 150 anni di galera, come nel caso rispettivamente di Kenneth Lay –Enron- e di Bernie Madoff, truffatore da 47 mld. di €) non impediscono che si commettano reati finanziari. E Worldcom, con il fondatore Bernie Ebbers che a 63 anni ne prende 25 di galera, ovvero l’ergastolo, non è da meno.

Lo scrittore inglese G.K.Chesterton affermava che “l’errore è una verità impazzita.” L’individualismo, sotto questo profilo, risponde alla definizione chestertoniana, laddove esaspera, mettendola al primo posto, la ricerca di benefici individuali, anche a scapito del benessere collettivo, danneggiando altre persone o i loro beni.

Alcuni esempi, tratti dall’esperienza di un lavoro, quello che svolgo personalmente, spesso giocato nella terra di nessuno che sta tra la banca e l’impresa, tra il finanziatore e il debitore. Penso che parlare della propria esperienza personale valga più di mille esempi teorici, perché fa riferimento a qualcosa che si conosce direttamente.

Personalmente mi occupo di modelli per la valutazione del rischio di credito e di analisi del merito di credito, lavorando prevalentemente dal lato bancario nell’esame di situazioni aziendali sovente borderline, ovvero squilibrate sia sotto il profilo economico, sia sotto quello finanziario. In tale veste vengo spesso in contatto con documenti contabili la cui rispondenza ai requisiti di verità, chiarezza e precisione è del tutto inverosimile. È altrettanto frequente che, nel corso di seminari o di corsi di formazione, soprattutto in banca, ma anche nell’ambito di consessi imprenditoriali, si verifichino discussioni, in sede dell’analisi di casi aziendali, nelle quali il dottore commercialista, o presunto tale, sia chiamato in ballo con frasi del tipo: “La colpa se hanno così tanti debiti è dei commercialisti, che li hanno convinti a scaricare gli interessi passivi” oppure ancora “Sono i commercialisti che fanno i bilanci e sono loro che li presentano in banca”. Tralascio i commenti e le facili ironie, perché penso che sia opportuno riflettere ulteriormente, e proprio a partire dalla deontologia applicata, se volete, in modo pedestre.

Nella veste di consulente di alcune banche, peraltro, mi è capitato spesso di ascoltare, nell’ambito di riunioni di Consigli di Amministrazione o in altre circostanze, frasi del tipo: “Non possiamo andare contro i commercialisti, soprattutto se sono nel collegio sindacale: e poi rischieremmo che portino i loro clienti in un’altra banca”. La crisi si è incaricata, progressivamente ma inesorabilmente, di incrinare questa concezione improntata ad un rapporto banca-impresa incentrato esclusivamente sulla copertura del fabbisogno, anziché sulla sua valutazione in termini di natura, qualità e durata (secondo gli insegnamenti del mio Maestro, mio e Vostro Collega, il caro prof. Attilio Giampaoli, mancato proprio quest’anno): ma resta tuttora diffuso un atteggiamento che vede nella sola ricerca di finanziamenti a tutti i costi l’unico problema da risolvere per tante imprese in difficoltà.

Valga un esempio fra i tanti. Un’impresa “storica”, da molti anni sul mercato all’ingrosso dei prodotti casalinghi in plastica, con margini operativi in progressiva diminuzione, ha visto improvvisamente flettere il fatturato del 25%, causa concorrenza estera. Facile arguire che, a seguito di tale contrazione, il risultato operativo sia diventato negativo e con esso sia venuto meno l’equilibrio economico e di conseguenza quello finanziario: a causa di tali circostanze, una delle principali banche italiane ha ridotto le proprie linee di credito di circa 6 mln. di € (l’azienda era peraltro già sovra-indebitata, con un debito pari a circa il 50% delle vendite, evidentemente eccessivo per il settore).

Il piano di salvataggio, presentato da un noto studio professionale associato nel nordest, contemplava le seguenti ipotesi:

·   richiesta di nuove linee di credito per cassa, sostitutive, per circa 6 mln. di €, da erogarsi immediatamente da parte delle altre banche;

·promessa di vendere, tramite incarico irrevocabile, due capannoni vuoti (ovviamente poiché nel frattempo ne era stato realizzato/acquistato un terzo molto più grande ed altrettanto inutile) ad un prezzo quasi coincidente con la nuova linea di credito sostitutiva;

·rientro dell’esposizione e “ripristino della continuità aziendale”.

 

Posso giudicare del piano che vi ho sommariamente descritto unicamente in base a quanto mi è stato mostrato da una delle banche delle quali ero e sono consulente. Ma non vi era, in alcun modo, la benché minima menzione di quali aspetti, sotto il profilo economico e reddituale, fossero stati individuati per agire su di essi al fine di ripristinare l’equilibrio economico: evidentemente assente a prescindere dal rientro, solo sperato, rispetto al nuovo fido di cassa. Il piano non aveva alcun requisito di sostenibilità, apparendo, come in realtà era, unicamente un escamotage per ottenere nuova finanza, attraverso i buoni uffici di uno studio prestigioso: non si prospettava alcuna possibilità di ritrovare l’equilibrio economico che anzi, a ben guardare, sarebbe mancato già alla fine dell’anno in corso, a prescindere dalla vendita dei cespiti. Che ne è della deontologia, in questo caso? Che concezione della crisi d’impresa sottende un intervento professionale teso, né più e né meno che prima della crisi, a trovare nuova finanza? Quanto c’è di accondiscendente in un rapporto professionale che si esplica in piani di ristrutturazione (senza offesa per i piani) di questo tenore ed evita accuratamente di guardare in faccia la realtà per quella che essa è, ovvero che l’impresa è decotta ed occorre non appena nuova finanza, ma un piano di risanamento che contempli tagli, sacrifici, ripensamenti profondi della filosofia aziendale?

Potrei andare avanti, raccontando di aziende palesemente indebitate ultra vires, la cui unica preoccupazione, condivisa purtroppo con il commercialista, non era quella di ritrovare la strada maestra dell’equilibrio economico e finanziario, ma quella di trovare nuova finanza. Ovvero, di trovare debiti nuovi, e maggiori, per pagare quelli vecchi. Nel mese di giugno ho visitato una banca nella quale non mi recavo, per consulenza, da circa 7 anni. Con l’occasione ho chiesto loro notizie di un cliente al quale io stesso avevo fatto visita, per spiegare, da terzo esterno e non coinvolto, che l’indebitamento che avevano era insostenibile (una volta e mezzo il fatturato, naturalmente con un bel capannone nel mezzo: ma si sa, si scarica il capannone, gli interessi passivi, tutto è scaricabile, quindi tutto è buono…). I debiti, allora pari a 1,2 mln. di €, erano lievitati a 3,5 mln. di €: e non riesco a darmi risposte, se non quelle della cecità più bieca e schematica, di come ciò sia potuto accadere. Nessuno ha goduto di quei maggiori debiti, che ora, molto più di prima, strangoleranno l’imprenditore, la sua famiglia e, in proporzione, i conti della banca in questione: l’imprenditore è sopravvissuto a sé stesso, indebitandosi per mangiare, non certamente per vivere alla grande. A chi è servito tutto questo? E chi, se non il commercialista, avrebbe potuto fermare questo degrado?

Difficilmente avrebbe potuto lo stesso commercialista, peraltro, che nel piano presentato 7 anni prima e rifiutato formalmente dalla banca (ma poi accettato nei fatti), spiegava che il fatturato, pericolosamente in bilico, si sarebbe poi ripreso crescendo del 50% all’anno nei tre anni successivi. In che modo? Mistero.

Così come è un mistero che tuttora mi accada, ed anche di recente in una primaria azienda della provincia, di essere richiesto di fare una consulenza, un check-up aziendale in sintesi, su dati aziendali palesemente falsi, soprattutto per quanto riguardava il magazzino. Sconsigliabile, con il sottoscritto, trattandosi del mio pane quotidiano. Ma non tanto per la vicenda in sé, evidentemente assurda, quanto piuttosto per il prosieguo: il lavoro non si è mai concluso e la consulenza non è mai stata erogata perché il dato del magazzino, depurato dell’alterazione contabile, non mi è mai stato comunicato. La rinuncia all’incarico non è tristemente necessaria, sarebbe un’ovvietà affermarlo: il retrogusto amaro che ti rimane è quello di una visione talmente distorta della realtà da divenire essa stessa più vera del vero, al punto che, come in un social network di moda qualche anno fa, Second Life, si può immaginare qualunque cosa, purché lontana dal reale.

Cito ancora un caso. In una banca del Centro-Sud ci è stato chiesto una consulenza in termini di assessment sulla qualità del processo del credito. Abbiamo proceduto verificando l’intero processo, dalla fase istruttoria, a quella dei controlli, controllando anche i compiti del Collegio Sindacale. La verifica dell’attività svolta dal Collegio ha condotto alla conclusione imbarazzante che il Collegio stesso, in una banca, non in un’impresa qualsiasi, si limitava, letteralmente, alle verifiche trimestrali. Il problema non è stato tanto nell’evidenza tecnica di quanto analizzato, quanto piuttosto nel modo di condividerlo. Il consiglio di amministrazione (composto da altri Colleghi) non ha ritenuto di dover prendere atto ufficialmente di quanto emerso nella consulenza, chiedendo piuttosto al sottoscritto di condividere il giudizio stesso, con i membri del Collegio. Cosa che ho accettato –non so quanto correttamente sotto il profilo deontologico- solo a patto di poter esprimere integralmente il mio giudizio ai Colleghi. Vi lascio immaginare l’imbarazzo: ma credo che il silenzio sarebbe stato ben peggiore.

Se l’educazione è essere introdotti alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, tutte queste storie ci insegnano che è mancata la volontà di educare. Non di insegnare, non di ammaestrare, di ammannire consigli impancandosi a sapientoni: educare, ovvero essere responsabili, in termini di giudizio che qualcuno dà sulla realtà. Conosco la facile battuta su “Chi sa fa, e chi non sa insegna” e proprio perché la conosco non la sopporto, perché fa fuori tutta la fatica di chi, invece, si coinvolge nella fatica di stare di fronte alla realtà.

Ma se è vero che ci sono clienti che non si muovono di un passo senza prima avere fatto una telefonata, forse è proprio degli altri che dovremmo sentirci maggiormente responsabili, senza pensare che tutto si esaurisca in una parcella pagata. E se provassimo ad immaginare, proprio ora, proprio ora che c’è la crisi, ed in maniera così violenta, che il compito del commercialista sia, letteralmente, “educativo”, ovvero capace di introdurre alla realtà secondo la totalità dei suoi fattori, senza edulcorarla, alterarla, stravolgerla, ma soprattutto, appunto, senza eliminarne nessun pezzo?

Si badi bene, non sto sottovalutando l’importanza del lavoro. Ma mi chiedo quanto siano compatibili col decoro della professione non certi onorari, quanto piuttosto i contenuti di certe prestazioni, come quelle svolte dagli anonimi Colleghi di cui sopra. Che vengono svolte, ricordando la frase di Kafka con cui ho iniziato, letteralmente senza alcun centro di gravità.

Credo allora di poter condividere con voi una conclusione, sicuramente non l’unica, e per la brevità dei tempi e per l’inadeguatezza del relatore che avete scelto. Mi piace concludere ricordando quello che, tra tante altre cose, mi ha insegnato un Maestro dei tempi dell’Università Cattolica, Mons.Luigi Giussani: Egli sosteneva che “chi non ha sensibilità non ha etica”. Io credo che in queste parole si possa ben riassumere il senso della mia riflessione odierna, che vorrei diventasse condivisa, personalmente, da ognuno di noi. Ovvero, non ci sono regole, né codice etico, che possano sostituirsi alla sensibilità personale, intesa come lettura che della realtà viene data dalla propria libertà, sia pure filtrata da cultura, temperamento, circostanze. In questo, la crisi, che pure ha messo così gravemente alla prova noi ed i nostri clienti, rimette al centro, caricandola di nuovi compiti, la nostra responsabilità personale che non è appena professionale, e ci mancherebbe, ma, letteralmente, educativa, ovvero di realismo. Vi ringrazio per l’attenzione.

 Urbino, 17 dicembre 2013.

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Capitalismo Imprese Stato

Marketing & moralismo. Nello Stato (!?) si realizza l’essenza dell’Eticità.

Marketing & moralismo. Nello Stato (!?) si realizza l’essenza dell’Eticità.

Così recita una pagina pubblicitaria sul Corriere di oggi, per Brunello Cucinelli. Non c’è molto da dire, solo rammentare che lo Stato etico per eccellenza era quello nazionalsocialista: a rovistare nella costituzione del Soviet, probabilmente anche l’URSS rappresentava lo Stato etico. Non saprei. Mi chiedo solo se Cucinelli sapeva quel che faceva il suo pubblicitario mentre predisponeva l’inserzione, di un moralismo che fa rabbrividire.

 

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Borsa Imprese profitto

Dividends and cash flow do matter (non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra 2).

Dividends and cash flow do matter (non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra 2).

E sempre a proposito di finanza etica, nella stessa storia di copertina di Plus24 di cui ci si è occupati ieri, appare un’intervista al prof.Perrini, a cura di A.Criscione, che fa “il punto con Francesco Perrini, direttore del Cresv (Centro Ricerche su Sostenibilità e Valore) presso l’Università Bocconi. Il quale spiega come il filtro dell’«etica» permetta di evitare spesso situazioni spiacevoli e ricorda come Parmalat fosse inciampata sulla trasparenza in questo tipo di valutazione ed esclusa dai fondi etici prima del crack finanziario. Innanzitutto cosa è la finanza etica? Il secondo termine forse oscura il primo e più che alla finanza e quindi agli investimenti, poi si pensa alla beneficenza e alle buone azioni.
È vero. Il termine “etica” da noi crea qualche complicazione. Tanto che nel mondo anglosassone si parla di investimenti sostenibili e l’acronimo più corretto Sri, socially responsible investing, in italiano dovrebbe essere «risparmio gestito in modo socialmente responsabile». Preferisco per questo: finanza sostenibile nella dimensione finanziaria sociale e ambientale. In Italia è però ormai in uso il termine di finanza etica ed è vero che “etica” oscura “finanza”. Anzi può creare fraintendimenti perché non fa pensare immediatamente a quello che invece è chiaro nel resto del mondo, ovvero che si investe in imprese che rispettano tutta una serie di parametri.
Quali parametri?
Sono essenzialmente tre: la responsabilità sociale, la sostenibilità ambientale e la trasparenza nella corporate governance, che si aggiungono ai classici criteri di valutazione di tipo finanziario relativi alle azioni e alle obbligazioni. Questi criteri permettono di selezionare quei titoli che nel tempo danno i migliori risultati e minori rischi.”

L’intervista prosegue fino al punto in cui Perrini, a domanda, risponde: “A cosa è dovuta la “tenuta” di questi titoli?
Certamente se compriamo un titolo di aziende che rispettano parametri di responsabilità sociale, di sostenibilità ambientale e di trasparenza nella governance, che perciò hanno una serie di rischi inferiori e una aspettativa di sopravvivenza superiore, rendono un po’ di più degli altri.”

L’affermazione è un po’ apodittica e lascia perplessi, così come altre nel corso dell’intervista; che d’altra parte, appunto, è un’intervista e non un saggio accademico, al quale richiedere fonti e citazioni bibliografiche.

Mi resta una domanda: la performance (vedi Prospetto nei Documenti) di un fondo come il Vice Fund, che dal 2002 batte regolarmente l’indice S&P 500, nel 2012 è tornato ai livelli precedenti il 2009 e che investe in titoli di aziende che si occupano di armi, case da gioco, tabacco e bevande alcooliche come si spiega?

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Banche

Non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra.

Non sappia la tua destra quello che fa la tua sinistra.

Il precetto evangelico sottolinea la virtuosità dei comportamenti di coloro che compiono opere di bene e le tengono nascoste, non se ne vantano, non tengono comportamenti farisaici, tipici di coloro cui Gesù Cristo si rivolgeva. Lo stesso precetto, ma decisamente distorto, sembra presiedere alle scelte di quelle banche, Monte dei Paschi in primis, che, come afferma Vitaliano D’Angerio sulla storia di copertina di Plus24 di ieri, si fanno un “esame di coscienza“, promuovendo investimenti etici. E’ nota l’avversione di JM al moralismo che presiede certe scelte, rese possibili, appunto, dal non sapere la destra quel che fa la sinistra. Sono paradossali, al riguardo, due esempi, entrambi ripresi nel reportage. Il primo riguarda proprio Monte dei Paschi, che mentre dichiara solenni principi morali nelle proprie scelte etiche, dall’altra non si scompone nell’impacchettare derivati ed altri prodotti similari per la propria clientela (a tacere della performance della banca, su cui è meglio tacere per non stancare il lettore ferragostano di queste note). Dall’altro c’è la stessa Banca Etica le cui scelte, appunto, etiche, sono rese possibili, per esempio, dall’applicazione di prezzi e tariffe tutt’altro che popolari ai propri utenti, è il caso di dirlo, aficionados. Peraltro lo stesso giornalista cita, a supporto dell’etica delle scelte della banca, innumerevoli esempi di finanziamento di impianti fotovoltaici, sulla cui effettiva sostenibilità e convenienza mi sono persino annoiato di parlare. Resta un interrogativo: quando sarà finita la sbornia delle rinnovabili, a cosa si dedicheranno gli etici amministratori delle (poche) banche etiche?

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Strumenti finanziari Università

Non è facile.

Non è facile.

Alberto MIcalizzi, dalla rete.

Non è facile inquadrare Alberto Micalizzi“, scrive sul Corriere di ieri Massimo Sideri. Alberto Micalizzi, di cui JM si era già occupato due anni fa, torna alla ribalta della cronaca per essere stato indagato dalla procura della Repubblica di Milano per truffa aggravata. Vivaddio, dopo due anni, la prestigiosa Università milanese, già retta dall’attuale Presidente del Consiglio, Mario Monti, lo sospende dal ruolo di ricercatore, peraltro ricoperto, a quanto riferito da fonti anonime (meglio non esporsi neppure sui complimenti) in maniera “intelligente”. Non è facile, ma i clienti del suo fondo fanno i conti con un crac da 500 milioni. E quanto al dott.Micalizzi, del quale il The Hedge Fund Journal parlava come guru della finanza quantitativa, forse sarebbe bastato leggerne le bibliografia per capire dove sarebbe andato a parare. Ci sono voluti due anni capirlo? Infine, una domanda semplice sull’oggetto degli studi del nostro: serve a qualcuno? A qualcosa? Serve allo sviluppo? Alla crescita, all’occupazione? Qualcuno sa rispondere? Grazie.

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Banche

Green à porter.

Green à porter.

Viaggi in macchina, ascolti Radio 3 ed invece della classica o del jazz viene fuori dall’altoparlante un’intervista a Daniela Guerra. La Guerra ha fatto tre legislature regionali a Bologna nel gruppo dei Verdi e poi è diventata imprenditrice aprendo un negozio a Bologna (nella centralissima galleria Falcone Borsellino, affacciato su piazza Galilei) che si chiama ‘Green à porter’.
La signora Guerra ha dichiarato, in un’intervista al Resto del Carlino di qualche mese fa, che «semplicemente, passo dal dire al fare. Lavoro a questa idea da oltre un anno, da quando ho fondato ‘Impronta leggera’, un’associazione per la promozione dell’ecosostenibilità. In questo campo la scommessa è trasformare le attività da sfizio a lavoro vero; abbiamo promosso gelato, profumi e cosmetici biologici e alla fine anch’io ho deciso di fare un lavoro vero». (..)
«Il risultato sono capi unici e in fondo di alta moda. In questo caso non si può scegliere la taglia, il capo è quello e non viene riprodotto. Si può invece scegliere per gli abiti confezionati con prodotti biologici, cotone, canapa e lino. Compro dagli artigiani e da chi lavora con materiali riciclati: ci sono borse realizzate con cartelloni pubblicitari in pvc, collane fatte con bottoni, abiti vintage ristrutturati. In questo campo chi produce vende in maniera quasi diretta».
I prezzi? «Non sono quelli stracciati dei cinesi. Sono medi: abiti da 80-100-120 euro e borse dai 30 ai 60. E lo stile è molto creativo».

L’intervista radiofonica non mi è piaciuta, c’erano un po’ troppe petizioni di principio e tanto moralismo, imperativi etici ed inviti alla clientela a comprare, in nome, appunto, dell’etica. Insomma, si affacciava il buonismo di prodiana memoria e JM provava diffidenza istintiva. Però…però poi sono andato a farmi un giro sul sito dell’imprenditrice ecologista, che è  http://www.greenaporter.it/ . Segnalo anche http://www.improntaleggera.org/ e http://natura.forpassion.net/2011/05/23/sviluppola-via-emiliana-all%E2%80%99eco-fashion/

Non mi metto a dare giudizi sui vestiti, non ne ho mai comprato uno via internet perché  i vestiti vanno visti e provati: ma la giornalista finanziaria che mi ha dato una mano per questo post sostiene che i vestiti, pur non piacendole, costano il giusto. Ripensandoci, la formula competitiva non è male, anche se sarebbe interessante vedere i conti. A pelle o, se si preferisce, un tanto al kg., eliminerei dal marketing un po’ di moralismo. E, comunque, l’affermazione che “il risultato sono capi unici e in fondo di alta moda. In questo caso non si può scegliere la taglia, il capo è quello e non viene riprodotto” mi fa venire in mente un signore che produceva auto negli Stati Uniti e che diceva che il cliente poteva scegliere il colore che voleva: purché fosse nero.

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Banche Silvio Berlusconi

Did not appear.

Did not appear.

Bloomberg dà notizia dello stipendio della neo-nominata direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Christine Lagarde, il cui emolumento è fissato in circa 467mila dollari, specificando che nel contratto dell’ex-ministro delle finanze francese è stata inserita una clausola etica, che recita:“As managing director, you are expected to observe the highest standards of ethical conduct, consistent with the values of integrity, impartiality and discretion,” (..)  “You shall strive to avoid even the appearance of impropriety in your conduct.” The requirements on ethics did not appear in the contract of her predecessor, Dominique Strauss-Kahn, who resigned in May after being charged with sexual assault.

Siamo certi che la signora Lagarde si saprà ben comportare: oltretutto gode del credito concesso ad una donna in quanto tale, peraltro definita da Forbes una delle più potenti del pianeta. Non pensiamo però, nonostante il moralismo che sulla vicenda ci è stato ammannito (non ultimo, dallo stesso sindaco Bloomberg a proposito della perp-walk) che Dominique Strauss-Kahn abbia demeritato. E della sua vita privata non ci importava granché, purché facesse bene il suo lavoro. Allo stesso modo, riteniamo che il Presidente del Consiglio possa spendere il suo tempo ed i suoi soldi come meglio gli aggrada: nel contempo, avendolo a suo tempo sostenuto, gradiremmo facesse ciò per cui è stato eletto, ovvero lavorasse per il bene comune. Al riguardo, ci sta venendo qualche dubbio.

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Rischi Risparmio e investimenti USA

Per un’armonia dell’economia.

Per un’armonia dell’economia.

El Greco, San Francesco in meditazione

Il convento delle Sisters of St.Francis, azionista di Boeing ed Exxon, coerentemente ad analoghe richieste di contenuto ecologico già rivolte da piccoli azionisti a grandi corporations americane, si è rivolto alla SEC per ottenere che all’ordine del giorno delle assemblee di bilancio fosse posto l’esame in dettaglio degli aiuti statali ricevuti. Morya Longo sul Sole 24 Ore riporta la vicenda citando suor Cathy Katosky, la quale afferma che «il cambiamento non sarà abbastanza veloce se le società che si occupano di energie rinnovabili non ricevessero gli stessi aiuti statali che permettono a gruppi come Exxon Mobile di andare bene». Ovvero, sempre per usare le parole di suor Cathy, al fine di “portare equilibrio in tutto il creato.”

Ora, chiedere ad un investitore, sia pure in tonaca, di non far valere i propri diritti sarebbe quantomeno incongruo, proprio su questo blog, che ha spesso invocato l’educazione e la cultura finanziaria come via necessaria e faticosa per scelte più consapevoli. Leggere le questioni poste dalle francescane dello Iowa lascia tuttavia una leggera traccia di moralismo nell’aria della discussione, come se la questione meritasse di essere approfondita solo perché si tratta di energie rinnovabili, il cui ricorso accrescerebbe l’equilibrio del creato. Nel frattempo, e nell’attesa del compimento di un così vasto programma, sul quale si sono scervellati filosofi ed economisti in tutte le età, sarebbe interessante conoscere se vi siano criteri che presiedono all’efficiente asset allocation delle sorelle statunitensi. E, soprattutto, se il loro portafoglio possa dirsi equilibrato ed eco-compatibile.

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Banche Imprese

Etica della responsabilità.

Etica della responsabilità
Riferire ogni comportamento all’etica della responsabilità, che impegna ad essere sempre orientati al servizio, all’integrità e alla trasparenza, alla correttezza negli affari, alla salvaguardia dell’ambiente ed al rispetto di tutte le persone.
Orientamento al cliente
Sviluppare l’ascolto e quindi l’attenzione alle relazioni con i clienti, migliorando la qualità dei servizi forniti e la customer satisfaction attraverso una costante attenzione all’efficienza e all’efficacia nei processi di produzione e di erogazione dei servizi stessi.

Monte dei Paschi di Siena, Valori e principi

Il 2009 è stato un anno complicato per la finanza e per l’economia italiana in generale. Un anno in cui il prodotto interno lordo è diminuito del 5%, in cui abbiamo avuto un aumento estremamente significativo della cassa integrazione, del numero dei disoccupati, delle famiglie in difficoltà, delle imprese che non riuscivano a mantenere i fatturati necessari a sostenere il proprio ciclo economico. In questo contesto, non avere smarrito la vocazione tradizionale della nostra Banca, quella di banca vicina al territorio, con un profilo profondamente retail e che mantiene la sua natura a prescindere dalle condizioni del mercato, ci ha consentito di navigare in un mare difficile senza perdere la rotta. Dentro questa navigazione, coscientemente, abbiamo perso forse delle opportunità, ci siamo rifiutati di assumere determinati rischi, siamo rimasti legati ad un concetto di ricavi tradizionali ricorrenti; e tutto questo trova la sua compiuta raffigurazione nel conto economico di fine anno.

Monte dei Paschi di Siena, Bilancio sociale 2009.
Ecco perché scegliere come banca Monte dei Paschi di Siena. Ecco perché, se in un derivato (venduto come assicurazione) il nozionale è il doppio del fido accordato, si tratta sicuramente di un’operazione orientata al servizio, all’integrità, alla trasparenza.