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Perché il bail-in riguarda anche le Pmi, non solo i risparmiatori.

Perché il bail-in riguarda anche le Pmi, non solo i risparmiatori.

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A parte i ben noti effetti della cattiva informazione, piovuta sugli italiani subito dopo il salvataggio delle 4 banche, con Movimento 5 Stelle ed associazioni consumatori in prima fila a saccheggiare l’armamentario dei luoghi comuni, vi sono alcune considerazioni sulla direttiva europea in materia di bail-in che non ho ascoltato da parte di (quasi?) nessuno e che riguardano, in maniera assai evidente le imprese.
Mi riferisco con tutta evidenza alle imprese che sono debitrici nette del sistema bancario, pertanto non alle grandi imprese ma alle Pmi, che dipendono dal credito bancario per ogni loro fabbisogno finanziario.
Le banche, soprattutto quelle regionali e medio-piccole (resta da vedere cosa accadrà delle Bcc una volta convertito il decreto e quante di esse decideranno, sciaguratamente, di fare come Jack Frusciante) non se la stanno passando troppo bene sul versante raccolta: le notizie che giungono dai back-office di alcuni importanti istituti in sede locale sono di coefficienti di liquidità tirati all’estremo, molto, forse troppo vicini al coefficiente minimo attualmente in vigore. Perché la raccolta sia in tensione è facile da spiegare: i tassi negativi da una parte, la sfiducia dall’altra, spingono i risparmiatori verso altri tipi di impieghi. D’altra parte la BCE, quale prestatore di ultima istanza, si è dichiarato addirittura disposto ad offrire tassi negativi, purché il re-impiego sia indirizzato verso famiglie ed imprese, ovvero all’incremento del portafoglio prestiti.
Ed allora perché il bail-in dovrebbe rappresentare un problema per le Pmi, che infatti non ne parlano, non dibattono e al più (come fa per esempio Radio 24) si soffermano sui riflessi per i risparmiatori?
Perché il bail-in, unitamente a tutta una serie di regole perlopiù ignote, soprattutto al mondo imprenditoriale ed al ceto professionale, impone una maggiore asset quality, ovvero una maggiore selezione nello scrutinio del merito creditizio delle imprese.
In sintesi: è liquido tutto ciò che è si caratterizza per elevata qualità della controparte creditizia e, di conseguenza, per modestia del rendimento, per giunta accentuata dall’appiattimento a medio-lungo termine della curva dei tassi. E l’ipertrofia della voce 130 nel conto economico dei bilanci bancari non è più compatibile con un margine di interesse a volte negativo, a volte nullo o inconsistente.
Dunque il credito non potrà più essere erogato -e non può più essere erogato fin da ora- con i medesimi criteri di questi anni, anche se è tuttora sorprendente il massiccio ricorso alla garanzia Mediocredito Centrale 80% per operazioni ben poco orientate alla crescita ed allo sviluppo; la motivazione obbligatoria per fruire delle agevolazioni in base alla legge 662 che disciplina la messa a disposizione della garanzia è “ripristino liquidità”, dunque per finanziare il circolante che non circola. E non è male ricordare che Mediocredito Centrale ha nella sua denominazione giuridica, secondo quanto voluto da uno dei peggiori ministri dell’economia del dopoguerra, Giulio Tremonti, la dicitura “Banca del Mezzogiorno”.
Se da una parte la garanzia Mcc è solo parziale, dall’altra, come tutti gli strumenti di credit risk mitigation, non può evitare un’accurata misurazione del rischio di credito, secondo parametri che siano, finalmente, imperniati sulla capacità restitutiva e quindi di generare flussi di cassa, non su immobili o inconsistenti business plan.
Se la normativa del bail-in pone il risparmiatore al centro, anche come soggetto attivo, in grado di spostare la sua raccolta indirizzandola verso approdi (gestionalmente) sicuri, dall’altro impone alle banche che vorranno essere scelte, e non scartate, nel beauty contest del mercato, di migliorare i propri parametri gestionali e la qualità dei propri attivi.
Restano solo due piccole domande, e non riguardano le banche, strette dentro modelli di business che fanno un ricorso sempre più massiccio all’information technology e la necessità di mantenere la relazione dentro un cammino sempre più segnato, dall’altra.
Gli interrogativi, infatti, riguardano da un lato la consapevolezza, prima ancora della preparazione, delle imprese richiedenti il fido; dall’altro rimettono al centro la figura del consulente, in questi anni di crisi tragicamente assente o teso perlopiù a rincorrere passivamente le situazioni, spesso incapace di portare un contributo efficace al risanamento aziendale, quasi mai in grado di predisporre un business plan.
In altre parole, beauty contest per tutti.

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Analisi finanziaria e di bilancio Banca d'Italia Banche BCE Crisi finanziaria Economisti Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese Mario Draghi PMI Rischi

La misurazione del rischio di credito: finale di stagione (arrivederci su Fox Crime).

La misurazione del rischio di credito: finale di stagione (arrivederci su Fox Crime).

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Il tema del razionamento o credit crunch ha tenuto banco tra gli addetti ai lavori praticamente dall’inizio della crisi, con punte particolarmente accese nella prima fase delle operazioni di LTRO della Banca Centrale Europea, quelle che hanno fatto dire a taluni geni della finanza che le banche si tenevano i soldi anziché destinarli alle imprese. Ricordo in proposito una esemplificazione, peraltro assai efficace, apparsa sul Sole 24 Ore, che stimava nel 2 per mille il residuo effettivamente a disposizione del mondo delle imprese, una volta terminati tutti i passaggi di 1000 euri messi a disposizione da parte della BCE.
Effettivamente un po’ pochini, se si guarda alla proporzione, in realtà, probabilmente quello che ci voleva perché il sistema non andasse al collasso e si materializzasse l’incubo (quello che tutti fingono di dimenticare quando parli loro di salvataggi bancari) del bank run o corsa agli sportelli.
Mentre si salvavano le banche –o meglio, si metteva in sicurezza il sistema finanziario europeo, del che si deve ringraziare Mario Draghi, che Dio ce lo conservi a lungo- si irrobustivano i requisiti di capitale, con buona pace di Sebastiano Barisoni e si sistemavano le regole. Del che abbiamo dato conto nelle puntate precedenti di questa serie di considerazioni incentrate sulla misurazione del rischio di credito.
Ora la tentazione potrebbe essere quella di dire “Bene, siamo a posto, tutto è come deve essere, a questo punto nulla più può ostacolare l’afflusso di credito alle imprese”. Probabilmente qualcuno lo ha già detto o lo sta dicendo. Niente di più sbagliato.
Le regole, e con loro l’ispessimento dei requisiti di capitale per le banche, non fanno la cultura del rischio; non garantiscono una cultura delle relazioni di clientela basta sulla trasparenza reciproca; non impediscono a imprenditori avventati di compiere passi più lunghi della gamba, non in omaggio agli spiriti animali, ma molto più banalmente alla ricerca di scorciatoie per la ricchezza o di sistemazioni personali o di capannoni inutili; soprattutto le regole non possono impedire che il mercato faccia il suo lavoro, ovvero cacci via le imprese decotte, inefficienti, incapaci.
Non si può invocare il mercato nei giorni pari ed in quelli dispari, come hanno fatto i c.d. “forconi”, chiedere interventi statali, sussidi, finanziamenti bancari. Se a qualcuno piace ancora il mercato, ricordi quanto diceva Schumpeter circa le banche “agenti della contabilità sociale” nonché, più recentemente, Zingales descrivendole efficacemente come “beccamorti del sistema economico.”
Le banche devono fare istruttorie fatte bene, molto migliori di quelle attuali, per non parlare di quelle in cui siamo stati abituati in tempi passati: e devono scegliere, dicendo dei sì e dicendo dei no, ma anche spiegandoli. E devono, molto più velocemente che in passato, far saltare le imprese a cui hanno prestato denari che non ritorneranno.
Ma le imprese devono mettere le banche in condizioni di sceglierle, ovvero devono raccontare sé stesse ed i propri progetti.
E per spiegare sé stesse c’è solo un sistema: capire a che punto si è, valutare seriamente e realisticamente quello che si sta facendo, misurare la correttezza del proprio operato confrontandosi. Non c’è insieme di regole che possa far nascere la cultura d’impresa, per soggetti che pensano che il mercato sia far nascere 10 bar nel giro di 200 mt. (provare per credere, basta venire nel mio quartiere a Rimini. N.B.: non sto al mare…) pensando che tutti sopravviveranno tra ricchi premi et cotillons. Non ci sono regole, per quanto bene scritte, che possano impedire a qualcuno di sognare che acquistare un tabacchino, un’edicola, la pensione Iris-con-vista-ferrovia, una rosticceria o un bar: ci possono essere solo i no delle banche, ma ad evidenza non possono bastare.
Su questo punto, soprattutto pensando alle Pmi, la palla è nel campo di professionisti ed associazioni: e, a quanto pare, è ancora tutto da dissodare.

Ultima puntata. La puntata precedente è stata pubblicata il 2 luglio 2014)

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Rischi Risparmio e investimenti Strumenti finanziari Università

Poco più di un buffetto sulla guancia.

Poco più di un buffetto sulla guancia.

Sugli amministratori di Helm, l’avvocato Rescigno conclude: «Quali soggetti che materialmente hanno commesso da un lato la violazione del regolamento e dall’altro l’illecito collocamento delle quote del fondo caymano… agli amministratori si potrà contestare sia la realizzazione materiale delle violazioni, sia il mancato controllo e quindi un loro contributo indiretto alla realizzazione dei quegli atti che hanno cagionato i danni ad Igm».

L’istruttoria della Consob su Helm si è formalmente chiusa il 30 settembre 2010 con la delibera n. 17512. Avendo accertato «la mancanza di correttezza e diligenza del comportamento di Helm Finance Sgr nell’interesse degli investitori gestiti, per essersi la società disinteressata della gestione del Fondo speculativo Helm Growth Premium, in ogni fase del ciclo di vita dello stesso» la Consob delibera sanzioni amministrative per 55.100 euro ad Alessandro Angelo Rombelli, 29.900 a Maurizio Dallocchio e 16.200 a Giulia Ligresti. Poco più di un buffetto sulla guancia a tutti. Per anni, invece, Alberto Micalizzi non ha avuto neppure quello. Fino a martedì.

Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore, 19 novembre 2011

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Banche Rischi

It looks unreformed, unwieldy and ultimately unsustainable (Rischi operativi).

It looks unreformed, unwieldy and ultimately unsustainable (Rischi operativi).

UBS ha comunicato di avere perduto 2 miliardi di dollari a causa di una  frode perpetrata da Kweku Adoboli, dipendente del gruppo, arrestato a Londra. Non sarebbe niente, se fosse la prima volta che accade. Ma, come ricorda Bloomberg “How many times do we have to see huge UBS losses?” said Simon Maughan, head of sales and distribution at MF Global Ltd. in London. “It looks unreformed, unwieldy and ultimately unsustainable. This could be a critical tipping point for UBS’s strategy.”

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Barack Obama Rischi Stato USA

Fare sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno).

Fare sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno).

New York, Subway, july 2011

Il principio di precauzione è una bestia strana, che risale almeno al “Vorsorgeprinzip”, il cardine della politica ambientale tedesca degli anni Settanta il quale imponeva di “provvedere prima” ai disastri (nel senso: meglio prevenire che curare). In realtà alcuni scavano ancora più indietro, risalendo ora agli anni Cinquanta, ora alla fine dell’Ottocento, ma tutti riconoscono l’importanza della figura di Hans Jonas e del suo “Principio di responsabilità”. Il principio di precauzione piace al movimento verde, piace agli interventisti economici, piace ai governi e piace alle organizzazioni internazionali, perchè fornisce a ciascuno di questi attori una fortissima giustificazione morale per “fare” sempre di più (cioè “lasciar fare” sempre di meno), ossia, per dirla in modo un poco datato, per pianificare. Proprio in un documento dell’Onu, la Dichiarazione di Rio del 1992, sta la formulazione canonica del principio: “Laddove vi siano minacce di danni seri o irreversibili, la mancanza di piene certezze scientifiche non potrà costituire un motivo per ritardare l’adozione di misure economicamente efficienti volte a prevenire il degrado ambientale”. Il richiamo alla “cost effectiveness” è la parte più trascurata del principio. Infatti esso rappresenta un salto quantico rispetto alla tradizionale analisi costi-benefici, perchè l’accento si sposta interamente dal lato dei costi, l’onere della prova ne viene conseguentemente ribaltato (per poter fare, devo provare che non danneggerò nessuno), e l’enfasi è tutta sull’abolizione del rischio, mentre nessuna attenzione rimane per le possibilità colte oppure perse. Nelle parole di Aaron Wildavsky, lo scienziato sociale autore di “Searching for Safety”, esistono due tipi di approccio: per “tentativi ed errori” oppure per “tentativi senza errore”. Scrive: “Secondo la dottrina del ‘tentativo senza errore’ nessun cambiamento verrà consentito se non c’è una solida prova che la sostanza o l’azione proposta non farà alcun male… E’ vero che senza tentativi non possono esserci errori; ma senza questi errori, ci saranno anche meno insegnamenti”. Per Wildavsky, chi non risica non rosica, e soprattutto non impara. Poichè la dimensione dell’apprendimento è fatalmente collettiva, l’avversione al rischio demolisce il processo di creazione della conoscenza (in senso ampio, il mercato) e impoverisce tutti, intellettualmente, tecnicamente e finanziariamente. Gli esempi sono numerosi.

Carlo Stagnaro, Il Foglio, 30 agosto 2011

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Felicità PIL Rischi welfare

Non siamo padroni del nostro destino.

Non siamo padroni del nostro destino.

L’incertezza ci si presenta così come una sorta di “precariato” dell’esistenza: ma se da un lato noi continuiamo ad aspettarci dalla tecno-scienza un controllo previsionale della natura fisica, e a rivendicare dallo Stato la tutela dei nostri diritti individuali e sociali; dall’altro lato queste aspettative e queste rivendicazioni finiscono forse con il coprire quel livello più radicale e più inquietante che sempre, poco o tanto, l’insicurezza rende evidente, e cioè che non siamo i padroni del nostro destino. Ma allora si pone una domanda: la mancanza di certezza coincide totalmente ed esclusivamente con la nostra incapacità a far fronte agli imprevisti della vita, ai casi della natura e agli accidenti della storia? Se la risposta è sì, allora l’incertezza è solo il riverbero di uno scacco, di una condanna, qualcosa come una maledizione. Ma se guardiamo più attentamente, essa è in grado di attestare anche qualcos’altro, vale a dire il nostro essere-esposti costitutivamente a ciò che accade, che ci raggiunge, ci tocca, e per ciò stesso ci spiazza, ci provoca, ci chiama in causa.
Costantino Esposito, Meeting di Rimini,23 agosto 2011

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Felicità Rischi welfare

Un continuo e incurabile stato d’incertezza.

Un continuo e incurabile stato d’incertezza.

A livello di esperienza individuale, sono cambiate soprattutto le nostre preoccupazioni e le nostre ansie rispetto all’incapacità di far fronte con i nostri mezzi alle minacce dell’imponderabile e del caso: «A farci sentire un’incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile» . Da un lato dunque l’incertezza appare insuperabile; dall’altro lato, però, questo non significa – come ci si aspetterebbe – una rinuncia a trovare assicurazioni per l’esistenza: e da tale contrasto nasce una sempre più diffusa paura.
Così l’organizzazione sociale, che nell’epoca moderna era stata pensata come un argine rispetto all’instabilità e alla conflittualità della natura (pensiamo per esempio a Hobbes), finisce per amplificare e moltiplicare i motivi dell’incertezza. Le soluzioni che finora lo Stato sociale e assistenziale presumeva di poter garantire ai cittadini sono state scaricate sulla capacità dei singoli a trovare risposte individuali a problemi di ordine sociale ; e tuttavia il più delle volte tale capacità appare come una finzione, perché non ci sembra proprio di possedere la conoscenza e la potenza adeguate per far fronte ai pericoli e agli imprevisti della vita. E questo ha come esito «perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione». E quasi a suggello di questa breve storia dell’insicurezza moderna, Bauman conclude: «Tutto ciò concorre all’esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l’incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti».

Costantino Esposito, Meeting di Rimini, 23 agosto 2011

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Crisi finanziaria Felicità Rischi

Contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste.

Contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste.

(..) Tuttavia, questa strategia di controllo non riuscì vittoriosa come si sperava. Ancora nel XVIII e nel XIX secolo si pensava che la mancanza della vittoria definitiva sull’incertezza dipendesse da una serie di problemi non ancora scientificamente affrontati, ma che, con il progresso della scienza, alla fine essi sarebbero stati risolti. La vera novità, il cambiamento drastico, secondo Bauman, è arrivato invece negli ultimi cinquant’anni (ma io direi anche prima), quando ha cominciato a mutare lo stesso significato attribuito alla “contingenza”, cioè alla nostra condizione di essere finiti, e dunque dipendenti dai casi della natura e dagli eventi della storia. Se in precedenza, infatti, ciò che era puramente casuale, imprevisto o incontrollabile era considerato come un fenomeno marginale di disturbo, a partire dalla seconda metà del XX secolo è come se tutto invece convergesse verso la precarietà: dalla conoscenza del cosmo all’analisi dell’io individuale, dalle strutture elementari della materia alla dinamica delle società complesse, i fenomeni collaterali di disturbo venivano interpretati come «attributi primari della realtà e sua principale spiegazione». Così, «[o]ggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani».

Costantino Esposito, Meeting di Rimini, 23 agosto 2011

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Crisi finanziaria Ripresa Rischi Sviluppo

Bisogna finalmente liberarsi di approcci angusti e strumentali.

Bisogna finalmente liberarsi di approcci angusti e strumentali.

Le difficoltà sono serie, complesse, per molti aspetti non sono recenti, vengono dall’interno della nostra storia unitaria e anche, più specificamente, repubblicana. Ad esse ci riporta la crisi che stiamo vivendo in questa fase, nella quale si intrecciano questioni che a noi spettava affrontare da tempo e questioni legate a profondi mutamenti e sconvolgimenti del quadro mondiale. Ma se a tutto ciò dobbiamo guardare, anche nel momento in cui ci apprestiamo a discutere in Parlamento nuove misure d’urgenza, bisogna allora finalmente liberarsi da approcci angusti e strumentali.
Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea ? Possibile che da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge ? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano. Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui. Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.
Scelte non di breve termine e corto respiro, ma di medio e lungo periodo. E’ da vent’anni che è, sempre di più, rallentata la crescita della nostra economia ; è da vent’anni che si è invertita la tendenza al miglioramento di alcuni fondamentali indicatori sociali ; è da vent’anni che al di là di temporanee riduzioni del rapporto tra deficit e prodotto lordo, non siamo riusciti ad avviare un deciso abbattimento del nostro debito pubblico. La crescita è rallentata fino a ristagnare, la competitività della nostra economia, in un mondo globalizzato e radicalmente trasformato nei suoi equilibri, ha particolarmente sofferto del calo o ristagno della produttività.

Giorgio Napolitano, Intervento al Meeting di Rimini, 21 agosto 2011

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Dissolta come un miraggio nel deserto.

Dissolta come un miraggio nel deserto.

Il declino è anche sulle scoperte: “Paragonate gli anni Venti agli anni Novanta: nei primi, la scoperta dell’insulina e della penicillina, i vaccini per la tubercolosi, la difterite, il tetano. Nell’ultimo decennio del XX secolo? Il vaccino per l’epatite A e il Viagra”. Steyn racconta i “bamboccioni italiani, che in Giappone sono chiamati ‘parasaito shinguru’, i parassiti single, e in Inghilterra sono i ‘kippers’, figli a carico di genitori e che ne erodono i risparmi. In Canada il 31 per cento degli uomini fra i 25 e i 29 anni dorme ancora nel letto d’infanzia”. La crisi demografica è letta attraverso la demografia: “Il cinquanta per cento delle donne giapponesi è senza figli. Fra il 1990 e il 2000 la percentuale di donne spagnole senza figli è raddoppiata. In Svezia, Finlandia, Austria, Svizzera, Olanda e Inghilterra, il venti per cento delle donne quarantenni è senza figli. La coscienza europea collettiva promossa dall’Unione europea si è dissolta come un miraggio nel deserto. Non c’è Europa al di là della finzione ufficiale dell’élite eurocratica”.

Mark Steyn, in Giulio Meotti, Il Foglio 18 agosto 2011