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Alessandro Berti Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese Indebitamento delle imprese PMI Relazioni di clientela Unicredit

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).

Andrea Orcel, Ceo Unicredit Group spa.

Ossimori (ovvero, del piano industriale di Unicredit).
Il CEO di Unicredit, Orcel, ha presentato ieri, 9 dicembre, il piano industriale della banca da lui guidata, dove secondo Alessandro Graziani, de IlSole24Ore, “archivia l’era del derisking, e torna a puntare sulla crescita delle attività, anche in Italia”.
Naturalmente, e non potrebbe essere altrimenti, si parla anche di redditività sostenibile, di mantenimento di solidi ratios patrimoniali, di rischio ragionato. Per il resto, molto in sintesi, il piano parla di un aumento dei ricavi da commissioni (difficile non chiedersi fino a quando la clientela sarà disposta ad accettare aumenti indiscriminati senza cominciare a guardarsi in giro e chiedere a qualche banca on line o simili tariffari più concorrenziali) ma anche di un aumento del volume dei crediti che, tuttavia, privilegerà il consumer finance al fine di non fare crescere l’RWA.
Insomma, “Pedro, adelante con juicio”, come fa dire il Manzoni al cocchiere spagnolo del Cancelliere.
Il piano è stato festeggiato dalla Borsa, anche perché annuncia un aumento di oltre il 30% della remunerazione da assegnare agli azionisti, tra buy-back e dividendi, anche se, a detta del cronista, il vero punto forte sarebbe la digitalizzazione, con la creazione di due fabbriche prodotto centralizzate (Corporate e Individual solutions) e la realizzazione di ampie economie di scala.
Unicredit resta fedele alla sua vocazione, quella di grande banca di transazione: non è mai stata una banca di relazione, con il piano industriale presentato ieri, coerentemente con quanto realizzato dai predecessori, punta alla creazione di valore, tentando di volta in volta di cavalcare l’onda migliore (allora, con Profumo, fu la crescita in Europa per linee esterne, con Jean Pierre Mustier quella di vendere i gioielli di famiglia e fare cassa etc…).
La lettura del piano industriale e il senso nemmeno troppo sottile che lo pervade, tuttavia, non possono lasciare indifferenti perché, come spesso ci è capitato di ripetere, nel rapporto banca-impresa occorre scegliere e farsi scegliere, perché ogni impresa è diversa dalle altre e perché le banche non sono fornitrici indifferenziate di denaro, come una facile pubblicistica e certo ceto professionale e imprenditoriale vorrebbero fare credere.
Peraltro, l’annuncio di un simile piano non può lasciare indifferenti i principali competitors di Unicredit, che pure, a parte Intesa, hanno i loro problemi organizzativi e dimensionali da risolvere; in altre parole, il piano industriale di Unicredit preannuncia una battaglia concorrenziale giocata sul digitale, la riorganizzazione dei processi, il puntare a prodotti standardizzati e facilmente collocabili sul mercato. Nulla che possa far piacere a Pmi e micro-imprese, alle quali, in questo momento, dice davvero tutto male, con l’eccezione, forse, dei fondi del PNRR, per chi saprà andarseli a prendere con piani finanziari seri e credibili.
Ma, come abbiamo potuto constatare nel corso di una lunga e approfondita tavola rotonda di presentazione del C.E.R.R.I. (Collegio degli Esperti per la Ripresa e il Rilancio delle Imprese) avvenuta ieri e alla quale ho avuto l’onore di partecipare, c’è ancora molta strada da fare, soprattutto da parte delle imprese -e, per conto mio, anche di molte banche che ancora discutono se sia accettabile un DSCR inferiore (sic) a 1- sulla strada di una vera relazione di clientela improntata alla partnership e perciò fondata sulla comunicazione finanziaria.
C’è da lavorare, occorre scegliere e farsi scegliere e con motivazioni approfondite.
Ovvero: è meglio una vera banca di transazione che una finta banca di relazione.

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ABI Alessandro Berti Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Lavorare in banca

Resilienza, valore e “risiko” bancario.

Resilienza, valore e “risiko” bancario.

Se c’è una cosa di cui essere grati al proprio Maestro, il prof.Giampaoli, è la diffidenza che mi ha insegnato nei confronti delle frasi fatte. Il titolo del post le riassume quasi tutte, manca solo “tesoretto” ma ci ha pensato Victor Massiah a tirarla fuori, nel presentare l’aggiornamento al piano industriale di UBI e nel definire come ostile e non concordata la proposta di Intesa. Tutto come da copione o quasi, salvo un chiaro atteggiamento a mio parere puramente difensivo (Intesa crescerà in Italia ma non all’estero, la fusione non crea valore per gli azionisti etc…) e, soprattutto, povero di argomenti veri. Le slides, scaricabili dal sito parlano più che altro di dividendi: e alla voce costo del lavoro si intuisce en passant che comunque, a prescindere dalla fusione, sarebbe un discreto bagno di sangue. Il vero argomento o, se si preferisce, la ciliegina sulla torta, è rappresentata  dal fatto che “si evidenzia un excess capital di circa €840 milioni di € che potranno essere distribuiti, corrispondenti a un cumulato di oltre 73 centesimi di euro per azione nel triennio. (…) . La crescita del monte dividendi disponibili rende inoltre evidente agli azionisti la dimensione del valore intrinseco della loro Banca.” 

Negli anni precedenti al 2008 Alessandro Profumo, parlava di free capital per fare acquisizioni, cresceva  e remunerava comunque gli azionisti: chissà cosa risulta a Massiah e al board di UBI simulando una bella fusione con MPS?

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Banca d'Italia Banche BCE Unicredit Vigilanza bancaria

Cara, posso spiegarti tutto.

Cara, posso spiegarti tutto.

Roy Lichtenstein, Crying girl

Giovedì o venerdì si terrà l’incontro informativo convocato da Ccb con i vertici delle circa 80 Bcc che fanno parte del gruppo. L’appuntamento è molto atteso, perchè il sistema vuole capire il senso dell’operazione voluta dai vertici della capogruppo. Secondo quanto emerso sinora l’ingresso in Carige sarebbe considerato come un’opportunità per lo sviluppo sul fronte informatico e del risparmio gestito, oltre alla presenza territoriale. Un approccio di questo tipo – considerata anche l’opzione a salire nel capitale di Carige – lascia presupporre che l’obiettivo di Ccb sia, nel tempo e al verificarsi delle condizioni, quello di assumere una posizione di controllo della banca genovese investendo, tra equity e bond subordinato, un importo non lontano da 600 milioni. Se questo scenario si concretizzasse, un gruppo bancario che fa perno sul credito mutualistico senza fine di lucro e basato sulle garanzie incrociate per garantire i requisiti patrimoniali, che assieme conta 1.500 sportelli, diventerebbe socio di riferimento di una spa con 500 sportelli sul territorio. Un passo molto lungo da spiegare al management delle 80 Bcc affiliate. Altro aspetto sul quale è concentrata è il prezzo al quale verrà fissato l’aumento di capitale da 700 milioni.”

Così Luca Davi e Laura Serafini sul Sole 24 Ore di ieri, 30 luglio. Non ho idea del piano strategico che ci sia dietro tutto questo, né che cosa Cassa Centrale Banca abbia in mente di fare nel concreto, bancassicurazione, risparmio gestito o cosa: il buonsenso mi dice che un Gruppo che vuole crescere, anche in vista di possibili-probabili future aggregazioni, mette in conto nel frattempo di digerire operazioni che sono comunque importanti (a occhio e croce, un terzo della propria dimensione, se gli sportelli sono una buona proxy) e che in prospettiva sarebbe superficiale trascurare. Ora, quando l’Unicredit di Alessandro Profumo cresceva per linee esterne a suon di acquisizioni, nessuno ha mai messo in discussione quelle scelte, tantomeno in base a criteri morali. Giudizi morali o valoriali, mai ascoltati. E invece adesso qualcuno devespiegare al management di 80 banche affiliate” perché una banca che ha come riferimento il credito mutualistico fa un’operazione di questo tipo.

Paradossalmente, si intravvede del moralismo proprio in giudizi di questo tipo, che evidentemente non si nutrono di simpatia nei confronti della cooperazione di credito: simpatia che, peraltro, il sottoscritto non ha mai nascosto. Ma non serve la simpatia per rammentare che nella cooperazione il profitto è prima di tutto un vincolo, poi un mezzo e comunque non un fine, e che la riforma delle Bcc era finalizzata a rafforzarle anche attraverso una capogruppo in grado di raccogliere capitali freschi, che dovrebbero pur essere remunerati. O no?

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Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria Indebitamento delle imprese PMI Unicredit

Da dove cominciamo?

Da dove cominciamo?

federico_ghizzoniCi sono due domande che mi sento rivolgere quasi ogni volta che mi capita di parlare in banca di credito deteriorato. La prima è praticamente automatica ed arriva dopo avere detto che occorre porre mano alle posizioni incancrenite, quasi sempre appartenenti a “clienti storici”, “nominativi sperimentati”, “gran lavoratori”, “ottima moralità”: come facciamo a dirglielo? Risposta: in italiano.

La seconda domanda, che segue lo sconcerto nell’apprendere che la lingua italiana è ricca di espressioni per dire ad un cliente insolvente che deve rientrare è, invece: da dove cominciamo? Anche oggi ho risposto con un’ovvietà: dai peggiori. D’altra parte, persino un’idiota capirebbe che mettere a rientro i migliori non è cosa, così come non funziona, nel dubbio, il lasciare tutto com’è. Soprattutto nelle piccole banche, dove il localismo viene troppo spesso scambiato per assistenzialismo, è naturale che non ci si decida, in particolare se si è sempre deciso di non decidere, ma le regole di Basilea 3 e le ispezioni di Bankitalia urgono, dunque si deve scegliere. Sul tema sarà opportuno ritornare, perché il ruolo delle banche come “agenti della contabilità sociale” di schumpeteriana memoria non può essere troppo a lungo tralasciato: diversamente sarebbero vuota retorica le frequenti invocazioni al mercato proprie di tanti che, tuttavia, al momento di staccare la spina si distinguono per doti insospettabili di misericordia economica.

Tant’è. Ma quanto comunicato da Unicredit, i cui conti sono stati affossati da accantonamenti per 13,7 miliardi (+46,8 miliardi su base annua) dimostra due cose, ovvero a)-che si può fare pulizia nei conti: b)-che dai conti ripuliti si può ripartire per generare reddito, perlomeno nelle intenzioni. Riporta Il Sole 24Ore che “per quanto riguarda il Piano Strategico 2013-18, che prevede un utile netto di 2 mld nel 2014 e di 6,6 mld a fine periodo, questo «è basato su fondamentali solidi, una forte cultura del rischio e uno scenario macro-economico in miglioramento» ha sottolineato Ghizzoni.”
C’è, soprattutto, una componente fortissima di riduzione dei costi del personale nel piano strategico di Unicredit, e questo non può essere dimenticato (nemmeno dalle imprese alla ricerca di una banca di “relazione”: non si fanno relazioni senza il personale); al contempo, intervenire sui costi operativi e sulla famigerata voce 130 del conto economico delle banche libera patrimonio ed aiuta il reddito solo se tali azioni sono accompagnate dalla volontà di sostenere le imprese, attraverso quella “forte cultura del rischio” menzionata da Ghizzoni. La sfida raccolta da Unicredit, in anticipo su molti concorrenti, consiste allora nel sapere gestire le relazioni con meno personale ma più preparato, più attento al rapporto con il cliente e maggiormente in grado, almeno sperabilmente, di valutarne correttamente il fabbisogno finanziario. Se Unicredit non tornerà a vendere derivati, come ai tempi di Profumo, la sfida lanciata con la pulizia dei conti ed i progetti per il dopo riguarda non solo le altre banche, ma tutto il sistema delle imprese, chiamato a scegliere e a farsi scegliere da finanziatori inevitabilmente più selettivi: nella consapevolezza che l’asticella, rispetto al passato, è molto, molto più in alto.

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ABI Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Imprese Indebitamento delle imprese Mario Draghi PMI Vigilanza bancaria

L’arte del regolatore e la sega elettrica.

L’arte del regolatore e la sega elettrica.

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Mi ero tenuto alla larga dal dibattito (invero non proprio di spessore) sul Monte Paschi, pur potendo vantare un track record di post, scritti in tempi non sospetti, che facevano ben comprendere quanto io abbia avuto in simpatia la conduzione manageriale di quella banca. Ma se il Governatore Visco dedica 5 pagine su 17 del suo intervento di ieri al Forex, stimolati da cotanto pulpito, forse vale la pena spendere due parole.

Ignazio Visco, anzitutto, ha ben spiegato che il regolatore non è un giustiziere: e che vigilare sulle banche non è qualcosa di molto simile a un linciaggio, piuttosto che al lavoro di un giustiziere fatto in casa come Dexter. Il Governatore ha puntigliosamente ricordato che notizie false e non verificate possono danneggiare banche e soprattutto risparmiatori, questi ultimi, peraltro, notoriamente tutelati dalla “più bella del mondo“. Non si commissaria una banca al primo stormire di fronde né, d’altra parte, la Vigilanza ha i poteri per sostituire gli amministratori; per quanto mi riguarda, non solo dubito che sia una buona idea, ma sono scettico sul fatto che, nonostante questa sia stata la lettura dei giornali ieri, lo abbia chiesto lo stesso Visco. Sullo sfondo esiste il concetto di libertà e di democrazia economica che qualcuno vorrebbe sempre nelle mani di un bel commissario del popolo e che invece va difeso e tutelato, anzitutto con coscienza e responsabilità.
Infine, come ho rilevato su twitter, il Governatore ha messo al centro del suo intervento non Monte Paschi, cui pure doveva dare risalto (e lo ha fatto, fin dalle prime righe della relazione), ma il concetto di efficienza, per le banche e, per quanto mi riguarda, soprattutto, per le imprese.

Le banche sono da almeno un anno sotto la lente di ingrandimento, anche in via amministrativa, per quanto riguarda compensi, impegno degli amministratori, preparazione tecnica, riduzione dei costi: e il cenno fatto durante l’esposizione alla patrimonializzazione delle Bcc non deve trarre in inganno sul fatto che anche esse siano al centro di un imponente lavoro di revisione dei modelli di governo e, cito testualmente, di focus sulla “qualità del capitale umano“, che va rafforzata, in quanto”cruciale nelle attività di valutazione del merito di credito e nella gestione dei rischi.” D’altra parte, per ritornare a banche di più grandi dimensioni, Alessandro Profumo era in prima linea, ieri, a guardarsi la punta delle dita mentre Visco sottolineava che i compensi, buonuscite comprese, dovranno essere legati a componenti reddituali certe, anche in prospettiva. Per quanto riguarda le imprese e le Pmi in particolare, il Governatore ha fatto passaggi che sia la stampa, sia la rete si sono ben guardati dal rilanciare: per quel che vale lo faccio io.

Se il mantenimento in equilibrio dei conti pubblici è la precondizione e non l’ostacolo per il risanamento, il Governatore ha ricordato al mondo delle imprese che non sono i denari ad essere mancati (le cifre delle due moratorie e delle garanzie messe in campo da Cassa DDPP sono impressionanti), ma la serietà nel continuare a sostenere iniziative imprenditoriali “con precaria situazione finanziaria e prive di prospettive di sviluppo.”

Si chiama allocazione efficiente delle risorse ed è un concetto che insegnamo fin dalle prime lezioni nei corsi di economia della banca o di economia degli intermediari finanziari: ma, soprattutto, è un concetto che non può essere appaltato in esclusiva al sistema bancario, quasi che le imprese siano tutte, senza distinzioni, partecipanti a un concorso di bellezza nel quale la più brutta assomiglia a Monica Bellucci e dunque i giurati, ovvero le banche, siano degli incapaci. Le banche non sono tutte uguali, e devono poter scegliere e farsi scegliere; ma lo stesso vale per le imprese, e non è un diritto divino.

Come sempre, il lavoro più impegnativo è quello culturale.

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ABI Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo BCE Crisi finanziaria Liquidità Mario Draghi

La nostra specialità? La liquidità.

La nostra specialità? La liquidità.

Maximilian Cellino, in un articolo sul Sole 24 Ore di ieri intitolato Credit crunch. La ricetta del Club Ambrosetti: separare retail da investment bank a livello europeo riporta la lapidaria ricetta della grande maison italiana di consulenza: «Più liquidità senza modello universale». Nel servizio si afferma che “secondo il rapporto la riforma potrebbe far risparmiare agli istituti italiani 33 miliardi in aumenti di capitale.

Il rapporto riprende l’idea, fatta propria anche dall’ABI, che non ha mai voluto intendere le ragioni dlel’EBA, che poiché i rischi sono maggiori nell’attività finanziaria e di trading, sarebbe ingiusto penalizzare le banche italiane che, al contrario, sono da sempre orientate all’attività bancaria tradizionale. I nuovi requisiti patrimoniali, applicati indiscriminatamente, sarebbero pensati per banche anglosassoni, non per le nostre: dunque, meglio evitarne l’applicazione, mettendo in soffitta il modello della banca universale e ritornando a quello della banca specializzata.

Ora, a prescindere dalle discussioni sull’efficienza allocativa di un sistema finanziario che, orientato alle banche, adotta il modello della banca universale anzichè di quella specializzata, è quantomeno discutibile che in Italia, stante il TUB del 1993, il modello applicato ed utilizzato sia effettivamente quello della banca universale. Quest’ultima, in effetti, sembra più una cornice legislativa, all’interno della quale il quadro disegnato dai protagonisti del sistema bancario italiano ricalca tuttora forme e colori della banca specializzata. Se così non fosse non si spiegherebbero le fatiche così grandi e così drammaticamente manifeste nei bilanci di quelle banche, le Bcc, che: a)-erano le più capitalizzate di tutto il sistema; b)-hanno fatto sempre e solo il mestiere di raccogliere il risparmio presso le famiglie ed affidare le Pmi.

Il problema del capitale è un problema vero, molto sentito da tutti i grandi azionisti delle banche maggiori, che intravvedono un futuro gramo fatto di nessun dividendo e di portafoglio sanguinante. Ma è agitato impropriamente come spauracchio per le imprese, e dunque per la politica e per le autorità di Vigilanza, perchè sarebbe la via per l’ineluttabile credit crunch. Il contributo presentato a Cernobbio, dove oggi arriverà Caronte-Profumo, sotto questo profilo non si discosta di molto dalla pubblicistica pro-ABI degli ultimi mesi.

Di una cosa va però dato atto al rapporto, ed è di rimettere al centro della questione la capacità delle banche di saper valutare il merito di credito: argomento di cui nessuno, a cominciare dal noto avvocato calabrese presidente dell’ABI, ha mai parlato, quasi che le sofferenze e la bolla immobiliare fossero il frutto di sfortunate coincidenze e non di un’ormai evidente incapacità di valutazione e gestione del rischio di credito, resa più acuta dalla crisi. Da ultimo, e non è poco, si parla anche di imprese, finalmente smettendo di blandirle, ma richiamandole alle loro responsabilità. Queste ultime «si devono comportare in modo diverso nei confronti delle banche, offrendo maggiore trasparenza e riducendo la commistione fra patrimonio dell’imprenditore e azienda».

Manca solo un’annotazione, a margine del rapporto: ringraziare Mario Draghi e quello che sotto di lui sta facendo la Bce. Perché con buona pace della signora Merkel (che non gradisce) e di tutti i premi Nobel del PdL, (che strepitano chiedendosi dove sono finiti i soldi della Bce), le richieste di rientro e le sofferenze del sistema sarebbero ben più elevate. Con vere, gravissime conseguenze sulla liquidità.

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Banche Lavorare in banca

Se scioperano i bancari rossi, si meritano Profumo.

Se scioperano i bancari rossi, si meritano Profumo.

La notizia dello sciopero, il primo dopo 14 anni, dei dipendenti del Monte dei Paschi di Siena, colpisce per varie ragioni. La più banale delle quali potrebbe essere, sia detto con il massimo rispetto, che i lavoratori sputano nel piatto dove mangiano (o mangiavano) molto bene. Come riferisce Il Sole 24 Ore, in strada, a dare solidarietà ai manifestanti, ci sono anche il sindaco di Siena, Franco Ceccuzzi e il presidente della Provincia, Simone Bezzini – entrambi contestati dai manifestanti -, cioè i grandi “capi” di Mps (nominano rispettivamente 8 e 5 membri, sui 16 totali, dell’organo di indirizzo della fondazione), che non sono voluti mancare «a questa grande manifestazione civile».

Ecco, proprio l’ipocrisia della frase dei due uomini politici fa riflettere, soprattutto ripensando a certe performances della banca senese. Forse qualcuno a Siena pensava ancora di avere una banca speciale, una banca “antropologicamente” diversa, come tanto moralismo vuole siano le iniziative progressiste, o presunte tali, a prescindere da un reale giudizio di valore. O forse, più banalmente, ci si è accorti che, alla fine, dichiarare i valori senza praticarli non solo non genera profitti di lungo periodo ma, soprattutto, mette a repentaglio posti di lavoro. Monte Paschi è (era?) una grande banca, che ha saputo mettere a frutto la propria vocazione di banca locale nel miglior modo possibile. La stessa vocazione che è stata tradita, inseguendo dimensioni non consone a quelle di un competitor locale (si pensi allo strapagato acquisto di Antonveneta) e praticando facili scorciatoie nella vendita dei prodotti finanziari ai clienti (e qui è facile ricordare certi prodotti, come ForYou, o la spinta a vendere derivati alle Pmi tipica degli ultimi anni). Ecco, se scioperano i bancari della banca più rossa d’Italia, forse è perché sono ritornati ad essere una banca come le altre, che deve fare profitti per sopravvivere, tagliando i costi. Una banca che si merita, alla guida,  un uomo con poche ideologie moralistiche, un uomo che pensi solo alla creazione di valore. Alessandro Profumo.

 

 

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Banche Unicredit

Quaranta milioni garantiti.

Quaranta milioni garantiti.

Radiocor – L’ex amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ha una clausola di manleva per gli atti compiuti durante la sua gestione della banca. Nel firmare le carte del suo addio dal’istituto di piazza Cordusio, secondo quanto risulta a Radiocor, e’ stato dato atto e poi scritto che Profumo ha operato correttamente. La manleva copre tutto il suo operato. Appare quindi difficile che i malumori registrati tra alcuni consiglieri delle varie fondazioni azioniste della banca possano poi sfociare in un’azione di responsabilita’, considerato inoltre che gli atti di Profumo sono stati proposti e approvati dal cda e dalle assemblee della banca, come prevede lo statuto.

Commenti sobri e pacati sulla vicenda imporrebbero di non aggiungere altro a quanto scritto da Radiocor, se non lo splendido commento di Dagospia. Tuttavia, del tutto incidentalmente, giova ricordare che Unicredit ha presentato una semestrale con soli 10,5 miliardi di euro di perdita; che Profumo è banchiere di sincera fede democratica, già McKinsey e, obviously, bocconiano.

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Alessandro Berti Banche Unicredit

Fondazioni e banche (ovvero del perché su Carim non ci si può chiamare fuori).

Fondazioni e banche (ovvero del perché su Carim non ci si può chiamare fuori).

Incontro su Crisi e destino, due sere fa, qui a Rimini. Di quanto detto nell’incontro si darà conto a parte, avevo preparato un intervento, ma le cose sono state proposte in termine di risposte a domande: e probabilmente la gente si è annoiata di meno (chi è venuto ritroverà solo in parte quello che ho detto).

Anyway, prima dell’incontro, vengo avvicinato da un amico della Fondazione Carim, che sostiene “l’ingiusto ed ingeneroso giudizio” sulla Fondazione stessa, come emerso dall’intervista alla Voce di Rimini. In sostanza, i geniali amministratori ed i dirigenti che hanno condotto al commissariamento non sono frutto dell’attuale maggioranza che governa in Fondazione, ma di quella preesistente. La nuova non c’entra. E’ difficile poter condividere un simile ragionamento, che oltretutto fa torto all’intelligenza dei cosiddetti “nuovi”: ai quali evidentemente stava bene la scelta degli uomini fatta dalla precedente espressione dell’azionista di maggioranza e che nulla hanno fatto per modificare anche in minima parte gli indirizzi assunti. Profumo, che pure aveva dato (nel senso letterale della parola: aveva erogato robusti dividendi) è stato defenestrato, non ci sarebbe stato nulla di male se fosse accaduto qualcosa di simile anche a Rimini. In tempi non lontanissimi, nella vicina Ancona, l’azionista di maggioranza Popolare di Bergamo revocò l’intero CdA, evidentemente un po’ troppo autoreferenziale, si poteva fare lo stesso anche qua.

La sensazione è che la Fondazione abbia pensato alla Banca come ad una sorta di bancomat, di erogatore sempre carico, di macchina bancaria perfettamente funzionante, nel solco del comportamento delle altre fondazioni italiane maggiori, quelle che governano in Unicredit, per esempio. Senza preoccuparsi, però, di come nascessero i dividendi, di cosa ci fosse dietro al margine di intermediazione, quale fosse, in definitiva, la “formula di intermediazione” di una banca troppo grande per essere autenticamente locale e troppo piccola per fregiarsi del titolo di banca regionale o di gruppo bancario. La grandezza non è, infatti, solo nella dimensione, ma nel modo con cui la si raggiunge, nella qualità del lavoro svolto. E se parliamo di una banca locale, nel saper tenere fede alle origini, quelle che la Banca sembra aver smarrito: e, con essa, anche la Fondazione.

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Banche Unicredit USA

Di chi è la colpa?

Di chi è la colpa?


(..) Certo, decenza e professionalità vorrebbero che un manager non chiedesse la luna. Ma in linea di principio il compenso annuale e la liquidazione dovrebbero essere decisi, in totale autonomia, dal consiglio di amministrazione, su proposta del comitato di remunerazione. Spesso i consiglieri, ansiosi di conquistarsi le benevolenze del management, offrono pacchetti estremamente generosi. Ci aspettiamo veramente che i manager dicano no, questo è troppo? Quanti di noi, in tutta onestà, farebbero altrettanto? La responsabilità dei compensi eccessivi quindi non è dei manager, ma dei consiglieri di amministrazione che votano questi pacchetti. Ancora più la responsabilità è dei consiglieri che siedono nel comitato remunerazione. Sono loro che ricevono le informazioni tecniche sui livelli di mercato. E sono loro che hanno il compito di istruire la pratica e fare le proposte al Consiglio. Nella maggior parte dei casi queste proposte sono accettate in toto o modificate in maniera marginale. Sono loro i maggior responsabili. Così Luigi Zingales sul Sole 24 Ore, chiedendosi di chi sia realmente la responsabilità dei bonus pagati ai supermanager: Zingales risponde che le colpe, se così si può dire, andrebbero cercate nelle decisioni di coloro che siedono nei comitati per la remunerazione. Il ragionamento non fa una grinza, se non per un piccolo particolare: detta così, sembra che il comitato remunerazioni sia una repubblica indipendente dal Consiglio di amministrazione e che quest’ultimo sia a sua volta autonomo ed indipendente rispetto ai soci di maggioranza, quando è noto che questi ultimi esprimono, spesso direttamente, le figure dei consiglieri. Basti pensare -non a caso Zingales parla di Unicredit e di Profumo- al ruolo svolto da Fabrizio Palenzona. Le remunerazioni ai supermanager sono funzionali ai dividendi, l’unica vera unità di misura delle scelte degli azionisti. Isolare, per dir così, la responsabilità di un comitato dal resto della società è una soluzione che non soddisfa e, soprattutto, che non tiene conto di tutti i fattori in gioco. Che sono, fra l’altro, anche culturali, se è vero che qualcuno non ha fatto altro che ripetere come un mantra la storia ormai stantìa della”creazione di valore” per l’azionista. Se ricominciassimo di qua?