Categorie
ABI Alessandro Berti Banca d'Italia Banche Crisi finanziaria Lavorare in banca

Resilienza, valore e “risiko” bancario.

Resilienza, valore e “risiko” bancario.

Se c’è una cosa di cui essere grati al proprio Maestro, il prof.Giampaoli, è la diffidenza che mi ha insegnato nei confronti delle frasi fatte. Il titolo del post le riassume quasi tutte, manca solo “tesoretto” ma ci ha pensato Victor Massiah a tirarla fuori, nel presentare l’aggiornamento al piano industriale di UBI e nel definire come ostile e non concordata la proposta di Intesa. Tutto come da copione o quasi, salvo un chiaro atteggiamento a mio parere puramente difensivo (Intesa crescerà in Italia ma non all’estero, la fusione non crea valore per gli azionisti etc…) e, soprattutto, povero di argomenti veri. Le slides, scaricabili dal sito parlano più che altro di dividendi: e alla voce costo del lavoro si intuisce en passant che comunque, a prescindere dalla fusione, sarebbe un discreto bagno di sangue. Il vero argomento o, se si preferisce, la ciliegina sulla torta, è rappresentata  dal fatto che “si evidenzia un excess capital di circa €840 milioni di € che potranno essere distribuiti, corrispondenti a un cumulato di oltre 73 centesimi di euro per azione nel triennio. (…) . La crescita del monte dividendi disponibili rende inoltre evidente agli azionisti la dimensione del valore intrinseco della loro Banca.” 

Negli anni precedenti al 2008 Alessandro Profumo, parlava di free capital per fare acquisizioni, cresceva  e remunerava comunque gli azionisti: chissà cosa risulta a Massiah e al board di UBI simulando una bella fusione con MPS?

Categorie
Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Bolla immobiliare Crisi finanziaria Inter

A proposito di bad bank…(pensiero stupendo).

A proposito di bad bank…(pensiero stupendo).

AC Milan's forward Mario Balotelli shows his jersey at the end of the Italian Serie A soccer match between FC Inter and AC Milan at Giuseppe Meazza Stadium in Milan, 13 Settembre 2015. ANSA/ DANIEL DAL ZENNARO

Ci voleva il Derby per farmi tornare a comprare il Corriere della Sera del lunedì: l’unica cosa buona del tutto è stata ri-leggere il Corriere Economia, poiché il servizio nelle pagine di sport era assai insulso ed il commento dimenticabile. Molto meglio il pretoriano-morattiano Fabio Monti, ma tant’è…

Detto del Derby, Fabrizio Massaro (omen nomen?) mi fa compagnia in una cena solitaria di #turismofinanziario e mi fa riflettere sulla bad bank, l’oscuro oggetto del desiderio di molte banche. Il meccanismo è noto, ma lo ripeto a beneficio dei miei piccoli (studenti) lettori: una società-veicolo compra i crediti non performing (o NPL) dalle banche, liberando i bilanci delle stesse dall’ingombrante presenza del credito deteriorato. Le banche incamerano qualche spicciolo, la differenza tra valore di libro del credito e valore di mercato sono perdite. Hic sunt leones. Una bad bank fatta per salvare un intermediario creditizio dai suoi crediti deteriorati compra i crediti ad un valore superiore a quello di mercato e le perdite gravano in misura minima sui bilanci bancari: in Italia è già successo con il Banco di Napoli, le perdite le abbiamo pagate tutti. Ma non c’erano gli euri, la disciplina degli aiuti di Stato era meno stringente e tante altre belle (?) cose. Ora non è più così: e se la bad bank dovesse essere varata, anche con il favore della UE, resterebbe a carico del contribuente l’onere dell’operazione. Meditare necesse est.

Solo un piccolo particolare: il buon Massaro giustamente parla nel suo articolo dei problemi legati alla giustizia civile ed alla lunghezza dei relativi processi (nonché delle esecuzioni, immobiliari e non), oltre che della natura dei crediti deteriorati, a suo dire più facili da stimare se di natura immobiliare e più complessi se relativi ad imprese. Trascurando, almeno all’apparenza che, con buona pace di chi oggi criticava Orfini su Twitter, le banche usano i soldi dei risparmiatori e devono applicare i criteri di “sana e prudente gestione“: ovvero, non solo non c’è banca al mondo che non richieda le garanzie ma, soprattutto in Italia, le garanzie hanno supplito al deficit di tecnica bancaria per fare prestiti a tutti, imprese soprattutto comprese. Fatta la bad bank ed eliminate le scorie nucleari degli NPL, chi impedirà alle banche di continuare a fare cattivo credito? Non la vigilanza europea, non allo stato degli atti: e, vista la devastazione operata dall’inizio della crisi, non la Banca d’Italia. Pensiero stupendo, nasce un poco strisciando: la bad bank incentiva l’azzardo morale e toglie le castagne dal fuoco. Alla Banca d’Italia.

Categorie
Banche Imprese Indebitamento delle imprese

Fallimenti congelati.

Fallimenti congelati.

pesci-congelati-7176642

La notizia della presentazione di una nuova proposta di concordato per Aeradria, la società che gestisce l’aeroporto di Rimini, è stata comprensibilmente accolta con il dovuto rilievo e con la speranza che, questa volta, il giudice competente approvi la proposta stessa. La lettura delle note di cronaca, soprattutto di quanto dichiarato dagli avvocati di Aeradria, fa riflettere, soprattutto laddove si dice che la prima volta si era presentata una proposta di concordato in bianco, questa volta invece è “completa“. Difficile non pensare che la prima volta qualcuno non ci abbia provato, per vedere se una proposta pur scandalosa, nell’urgenza del momento, potesse comunque essere approvata. Un fallimento, sia pure congelato, magari etichettato altrimenti, sempre quello rimane.

In ogni caso, nell’attesa della pronuncia, qualche riflessione si può fare, soprattutto sul significato economico dell’operazione. La conversione di crediti in azioni è la classica “operazione di sistema” che accredita la nuova Carim come, appunto, “banca di sistema”, sulla scorta dell’esperienza ben più nota di Intesa. Si tratta, tuttavia, di un’operazione penalizzante per qualsiasi banca che non sia molto capitalizzata, soprattutto in tempi come questi nei quali l’essere liquidi fa la differenza a tutti i livelli, a cominciare dai criteri di vigilanza prudenziale (le pertecipazioni azionarie riducono le possibilità di fare prestiti e nel caso di Aeradria non sono neppure redditizie a breve scadenza) per finire alla redditività per gli azionisti, nel caso di Carim non proprio felici delle ultime vicissitudini: e si tratta di un’operazione che, inevitabilmente, avrà tempi lunghi, difficilmente compatibili con l’ottica di una banca locale.

D’altra parte, quella che viene presentata come una privatizzazione -e almeno formalmente lo è- non vede l’ingresso di nuovi soci industriali ma solo di nuovi finanziatori, ai quali si presenterà comunque il problema dell’inadeguatezza del volume d’affari, dello scarso utilizzo della struttura, dei margini e dei costi fissi. In buona sostanza, gli stessi problemi che hanno portata l’attuale Aeradria spa, pubblica, sull’orlo del fallimento.

Infine, se il problema di Aeradria non è finanziario, ma economico, la questione diventa strategica; ovvero dell’utilità di una struttura, come quella aeroportuale del F.Fellini, inserita in un contesto distrettuale dove si fatica a trovare un coordinamento e dove le iniziative vanno sempre bene, purché fatte con denari altrui. Che poi questi denari siano quelli di una banca non può consolare: e soprattutto, non può bastare.

Categorie
Banca d'Italia Banche Banche di credito cooperativo Crisi finanziaria

Casse di risparmio di tutta la Romagna, unitevi!

Casse di risparmio di tutta la Romagna, unitevi!

Matrimonio_aug1926

Il grido, poco proletario, sembra provenire dalle dichiarazioni rilasciate dai soci delle principali Casse di Risparmio della Romagna, perlomeno di quelle rimaste indipendenti. E’ da notare appena incidentalmente che Cassa dei Risparmi di Forlì e della Romagna esiste già, ma solo come scatola vuota, contenitore della cosiddetta Banca dei territori con la quale il gruppo Intesa a suo tempo ha tentato di salvaguardare un’identità localistica venuta meno con l’allargarsi del perimetro del gruppo stesso. Non ha importanza, un nome si troverà. Appare tuttavia evidente che il processo di fusione delle residue casse rimaste sole, non può essere definito come un matrimonio d’amore, dove gli sposi, come nella canzone di Brassens tradotta da De Andrè, vanno avanti a tutti i costi a dispetto del meteo e degli déi. Il matrimonio in questione sembra quasi la tradizionale imposizione di genitori nobili (magari decaduti) a figlioli riluttanti e, forse, un po’ scapestrati. Tant’è: poiché non si può cavare il sangue dalle rape, non resta che augurarsi che il processo di fusione che sembra avviarsi (e del quale su queste colonne si era già data notizia) sia l’occasione per ripensare all’identità di una banca autenticamente locale, in grado di servire territori nei quali le uniche banche di prossimità sembrano essere rimaste le banche di credito cooperativo.

Buon divertimento!

Categorie
Banche BCE Indebitamento delle imprese Liquidità PMI Unicredit

Dove sono finiti i 115 miliardi della BCE?

Dove sono finiti i 115 miliardi della BCE?

Poiché bisogna avere qualcosa da dire, in tempi in cui la politica dimostra di avere fallito e di non avere alcun progetto, il PDL, non pago di avere farfugliato scempiaggini su Cortina, si chiede dove siano finiti i soldi della BCE, sui quali le banche starebbero facendo lauti guadagni, non affidandoli alle Pmi, ma investendoli in qualcos’altro; oppure ancora, che cosa si pensi di fare riguardo a Unicredit.

Parlare male di Unicredit (per qualche buontempone, Unidebit) è come sparare sulla Croce Rossa, dopo un po’ ti stanchi, troppo facile. Varrebbe la pena magari ricordare che quando c’era da salvare Mediaset fu il Banco di Roma di Geronzi a farlo, prima di essere fusa in Unicredit. E che Unicredit stessa, oltre ai propri scheletri nell’armadio (Burani) ha ereditato anche quelli dell’ex-presidente di Generali (su tutte, non solo per l’importo, la Roma a.s.).

Quanto alle banche, forse sarebbe il caso di cominciare ad essere chiari e dire le cose brutalmente come stanno. Le banche hanno finito i soldi, sono inchiodate. Punto. Le grandi banche per avere fatto dell’azzardo morale la loro regola di condotta, quando c’era da creare valore per gli azionisti, a qualunque costo (compreso il famoso unico posto di lavoro, la segretaria, creato dalla Tassara di Zaleski), con grandi operazioni e grandi debitori. Le piccole banche per avere fatto più di quano dovevano, finanziando ultra vires le Pmi razionate dalle grandi (ma Alice-in-wonderland-Lupi and his-brother-Tremonti se ne accorsero solo due anni fa, l’uno ripetendo al Meeting di Rimini quello che l’altro aveva già cominciato a dire) e per avere partecipato anch’esse a finanziare la bolla immobiliare.

Quindi, che fine fanno i quattrini della BCE? Non servono ad investire in titoli di Stato, cosa che nessun banchiere assennato farebbe in questo momento, con il rischio di trovarsi minusvalenze in bilanci già precari; non servono per dare quattrini alle imprese perché le imprese sono inchiodate e non li restituirebbero, perché sono troppo indebitate e sottocapitalizzate (e comunque vorremmo ricordare al buon Lupi che se aumenta il costo della raccolta, ed è aumentato grazie allo spread ed alla fiducia dei mercati nel suo Presidente, non si possono prestare quattrini in perdita).

Servono ad una sola cosa (evidente, d’altra parte, visto l’ammontare dei depositi presso la BCE stessa, liquidissimi ma scarsissimamente redditizi): a dare alle banche quel minimo di liquidità che serve per evitare la corsa agli sportelli.

In attesa che le Fondazioni ricapitalizzino (lo so, è fantascienza, ma i soci sono loro, mica i professori universitari) è l’unica fine che faranno quei quattrini. Lupi e Cicchitto hanno idee migliori?

Categorie
Banche Borsa Crisi finanziaria fiducia Giulio Tremonti Indebitamento delle imprese Liquidità Ripresa Silvio Berlusconi Stato Unicredit

Il pericolo è che si giustifichi.

Il pericolo è che si giustifichi.

Questa disfatta non è giustificata. Il pericolo è che si giustifichi“. Così Il Sole 24 Ore di oggi riporta, nelle pagine on-line, il giudizio della Lex column del Financial Times, che esamina le conseguenze del taglio del rating operato da Standard and Poor’s dapprima al debito sovrano del nostro Paese e poi alle 7 principali banche. La disfatta delle banche italiane non sarebbe giustificata, eppure Unicredit ha attinto oggi i minimi storici o, come dicono i cronisti televisivi, ha aggiornato il proprio record negativo.

Solo l’improntitudine del nostro Premier poteva giustificare il downgrade del rating del nostro debito sovrano con la campagna mediatica in corso. Non meno ingenui e sprovveduti appaiono tutti coloro che ritengono le agenzie di rating una sorta di Spectre della finanza, che affossa intere nazioni con un semplice comunicato. Si può difendere oppure no la politica economica di questo Governo, si possono discutere le scelte operate da Tremonti e quelle non fatte dal presidente del Consiglio: ma se avessero taciuto le agenzie di rating, avrebbero parlato i numeri del nostro debito pubblico, ancora in ascesa e, soprattutto, i numeri di una manovra finanziaria che, nella migliore tradizione italiana, insegue la spesa pubblica con nuove tasse. Continuiamo a non aspettarci nulla dalla politica, forse la decenza imporrebbe appena un po’ meno ipocrisia. Quanto alle banche, non si tratta semplicemente dell’effetto-downgrade che si trasmette in automatico, causa detenzione di ingenti ammontari di titoli di Stato in portafoglio. Ciò che appesantisce le banche sono le sofferenze e le conseguenze di queste ultime, non tanto sul patrimonio, quanto sulla liquidità: le perdite su crediti, non quelle su titoli, sono la questione. E questo, purtroppo, giustifica molte cose.

Categorie
Banche Crisi finanziaria Fabbisogno finanziario d'impresa Unicredit

Special situations (Di cosa sta parlando?).

Special situations (Di cosa sta parlando?).

«Le banche escono dal seminato, fanno le banche di sistema. Una volta convertiti in capitale i crediti verso un’azienda in difficoltà cercano di difendere i propri bilanci posticipando il più possibile l’emergere di criticità» ha dichiarato a Il Sole 24 Ore Enrico Ceccato, managing partner di Orlando Italy, uno dei pochi fondi di private equity italiani attivi nel campo nelle ristrutturazioni aziendali (special situations). «Questo – aggiunge – blocca il sistema e rende difficile per gli operatori specializzati investire».

Di chi stia parlando è chiaro: oltre a Intesa, anche Unicredit ha girato la prua nella direzione di una nuova vocazione di “banca di sistema“. Di cosa stia parlando Ceccato è molto meno chiaro. Forse Ceccato ignora, o finge di non sapere, che semmai c’è stato un momento sbagliato per le banche per trasformare crediti in liquidità è proprio questo, con la necessità di ricapitalizzare in vista di Basilea 3 e, più in generale, il dover restare assai liquidi. Ad ogni buon conto, quello che a detta di Ceccato è così chiaro e lampante sembra, nella realtà, molto meno evidente, soprattutto se parliamo di Pmi, i cui pacchetti azionari non interessano le banche. Se invece si sta discutendo di grandi imprese, magari quotate, allora parliamone, magari in altra sede. D’altra parte è la stessa AIFI, l’associazione che raggruppa gli investitori istituzionali nel capitale di rischio, a ricordare, per bocca del suo Presidente, Anna Gervasoni, che negli ultimi 7 anni sono state compiute la miseria di 38 (sic) operazioni da parte di investitori specializzati in ristrutturazioni (special situations). Il problema non sono le banche, anche se le banche hanno sempre colpa di qualche cosa; e forse si potrebbe ricominciare a parlare di cultura imprenditoriale e del ruolo effettivo di questi operatori i quali, se non trovano spazi, forse qualche interrogativo esistenziale dovrebbero porselo.

 

 

 

Categorie
Banche Fabbisogno finanziario d'impresa Imprese PMI

Bancabilità: ovvero, non sono le banche a dover tenere conto della realtà, è la realtà che deve adattarsi, divenendo bancabile.

Le affermazioni del dottor Corrado Passera, a.d. di Banca Intesa, sulla bancabilità delle imprese agricole, meritano sicuramente qualche riflessione ben meditata. Fra l’altro, proprio il ruolo che si è ritagliata Intesa di banca di “sistema“, sicuramente diversa rispetto ad altri protagonisti più turbolenti e discussi del panorama bancario italiano, richiede di tentare, almeno, di andare oltre le parole.

Ebbene, le parole sono queste: ”con questa dimensione delle aziende agricole c’è poco da andar lontano”. Tra l’altro, ”l’85% delle aziende non produce un bilancio, e un’azienda che non produce bilancio è primordiale rispetto alla bancabilità. Noi vogliamo imparare a fare i banchieri del mondo agricolo, ma il credito è una responsabilità forte e si basa su cose serie: piani, risultati, garanzie”, oltre che sulla ”conoscenza diretta delle aziende”.

Provando a declinare nel concreto, ed andando oltre la facile obiezione sull’assenza di bilanci (il dott.Passera sa bene che negli altri settori, artigiano o commerciale, le micro-imprese tengono la contabilità semplificata ed i loro bilanci sono poco più che un conto economico: e tenere la contabilità ordinaria e dunque il bilancio è assai costoso):

  1. la dimensione delle imprese è il problema: senza dimensione media più elevata non si ottengono le economie di scala, non si riduce l’impatto dei costi operativi, soprattutto per quanto riguarda quelli di distribuzione; ma la dimensione è quella, lamentarsene non serve;
  2. i piani si possono fare (non li fanno nella manifattura, perché dovrebbero farli gli agricoltori?) ma forse sarebbe bene, prima ancora di prefigurare evoluzioni prospettiche, capire “come siamo messi“, ovvero cosa c’è che non va nella gestione attuale (i.e.il costo del capitale agrario, fra le altre cose);
  3. le banche sono state in prima fila a finanziare la bolla speculativa che ha afflitto ed affligge l’agricoltura: le garanzie c’erano, nessuno se n’è lamentato, anzi. Sembra strano che diventino un problema proprio ora;
  4. una struttura bancaria dedicata all’agricoltura non può risolvere i problemi del settore, che nascono molto prima e che sono problemi sistemici, a livello europeo. Sono i problemi di un settore per il quale tuttora il bilancio comunitario destina la maggior parte delle sue risorse, sostenendolo perinde ad cadaver, ovvero distorcendo il mercato;
  5. infine e soprattutto, una banca dedicata non può risolvere i problemi di un settore che ha il proprio tallone d’Achille nella redditività (e nuota da secoli nella finanza agevolata). A meno che il dott.Passera non intendesse riferirsi alla necessità della presenza di una banca che agevoli un processo di razionalizzazione e concentrazione del settore, i cui costi sociali non riesco neppure ad immaginare.
Categorie
Banche Unicredit

I rating delle banche.

Da un articolo del Sole 24 Ore on line apprendiamo che “Il settore bancario italiano secondo Moody’s si merita nel complesso un rating “C” che indica un’adeguata «forza finanziaria intrinseca». La media del comparto, ponderata per le dimensioni, «è fortemente influenzata dai rating più elevati di Unicredit (C) e Intesa Sanpaolo (B-). La media non ponderata dei rating Bfsr delle banche italiane è «C-» segno che la maggioranza delle banche è vulnerabile alle avversità». Il livello di rating, relativamente solido, delle due banche maggiori secondo Moody’s fa eccezione in quanto, nonostante una qualità degli attivi non forte, riflette la forza della rete commerciale.

Qui si deve confessare la propria ignoranza: sinceramente non si era giunti a pensare che, nonostante una “qualità degli attivi non forte“, si potesse tuttavia confidare nella “forza della rete commerciale“.

Sarebbe interessante spiegare lo stesso concetto ai molti titolari di Pmi che stanno assistendo al razionamento del credito verso le loro imprese in questo periodo. Ma sarebbe anche interessante sapere che cosa si intende veramente per “forza della rete commerciale”: per esempio, la forza di saper vendere derivati come se fossero caramelle?

Categorie
Banche Borsa Consob Imprese Indebitamento delle imprese Unicredit

Un Ventaglio di debiti.

Bruno Colombo, patron dei Viaggi del Ventaglio

Simone Filippetti e Fabio Pavesi, sul Sole 24 Ore di oggi, ripercorrono la storia dei Viaggi del Ventaglio, fallita il 15 luglio scorso. L’articolo è prodigo di cifre e di dati ma, soprattutto, mette nero su bianco due tristi verità: chi ha margini modesti (il Mol inferiore al 3%, per esempio) non può giocare con la finanza, ovvero non può avere debiti pari a 13 volte lo stesso Mol e a 10 volte i mezzi propri; la quotazione in Borsa come strumento per la raccolta di capitali freschi per liberare risorse per lo sviluppo, come troppo spesso decantato in tanti manuali, è una balla colossale.

Sarebbe il caso di ricordare che nel caso in questione sia la Consob, impugnando i bilanci ed inserendo la società nella black list, sia i revisori, la Deloitte, hanno fatto il loro dovere. Le banche, sicuramente, no. Perlomeno quelle che non soltanto hanno continuato a finanziare la società ma le hanno venduto derivati per 170 milioni (con perdite per 27 milioni nel solo 2003), o prestato denari per pagare altri debiti.

Senza andare troppo indietro nel tempo, al 31 ottobre 2007, con accordi di ristrutturazione del debito già effettuati, la lettura del bilancio (sul sito di Borsa Italiana sono reperibili i bilanci degli esercizi antecedenti la messa in liquidazione ed il fallimento) mostrava alcune notizie interessanti: il risultato operativo, o EBIT, era pari allo 0,31% delle vendite, i debiti finanziari lordi (perché sarebbe ora di piantarla di pensare alla posizione finanziaria netta per imprese in crisi, la liquidità, come insegnano i casi Parmalat e Burani è solo contabile) pari ad oltre 39,7 milioni di euro, pari ad un multiplo di oltre 16 volte l’Ebit stesso. Gli oneri finanziari, pari a 6,6 milioni di euro, superavano di quasi tre volte il reddito della gestione tipica: si chiamerebbe incapacità di reddito.

Comunque, a parte Intesa, dallo stesso bilancio si evince la presenza maggioritaria fra i finanziatori dell’immancabile Unicredit, banche che ad evidenza hanno acceduto all’accordo di ristrutturazione. Difficile non chiedersi in base a quale criterio lo abbiano fatto.