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Fare a meno delle banche?

Fare a meno delle banche?

La giornata di ieri, cominciata alle 9 con una riunione e, lavorativamente parlando, terminata alle 19, ha avuto un seguito di circa 6 ore di viaggio, dalla Brianza a Riminibirsk, come ormai andrebbe ribattezzata la città dove vivo. In 6 ore hai molto tempo per pensare, per ascoltare la radio (Isoradio e le sue comunicazioni tardive sulla chiusura di tratti autostradali nonché sul divieto di transito ai Tir superiori a 7,5 tonn., che invece circolavano impuniti), pensare alle infrastrutture ed al deficit italiano delle medesime, maledire camionari, NO TAV, Nimby vari ed assortiti. Però durante il viaggio, come una sorta di sottofondo mentale, ho continuato a pensare sia a quanto avevo discusso presenziando al CdA di una banca locale, sia a quanto ero riuscito a leggere, di contrabbando, su internet e su twitter. Ovvero, del rapporto banca-impresa e, addirittura, se si possa fare a meno delle banche. Comincio dalla fine, ovvero da un mondo senza banche: credo sia nei sogni di quel campione di liberismo che è Giulio Tremonti, che qualche sere fa in televisione ha ripetuto il noto slogan della banca rapinatrice e non rapinata. Le banche nascono per raccogliere il denaro delle persone, che non saprebbero come impiegarlo e come custodirlo, come farlo rendere e come essere sicure di ritrovarlo: possono farlo perché su base fiduciaria e regolamentata raccolgono i risparmi dei cittadini, facendo da tramite per questi verso gli investimenti. Il punto di partenza è, appunto, il risparmio, ci piaccia o no; rifletterci servirebbe a capire che l’unica vera alternativa alle banche è il materasso. O cialtroni truffaldini, di cui nessuno ha memoria, che negli anni ’80 proponevano forme di risparmio alternative e ladronesche, come i vari Cultrera dell’IFL ed altri storie simili. Possiamo discutere che lo facciano bene, possiamo esigere che lo facciano meglio: e proprio per questo dovremmo sceglierle, molto più di quanto non facciamo ora, in una sorta di pretesa che tutte si comportino allo stesso modo in automatico. Sarebbe come pretendere che tutti i whisky fossero come il Bowmore, per spiegare poi perché costano così tanto.

La seconda questione è legata alla prima, perché con altrettanta insofferenza in questo periodo di crisi ci si lamenta dei comportamenti delle banche nei confronti delle imprese (qualcuno ieri, scherzando ma non troppo, parlava sul web di banche che potrebbero de-localizzare, per guadagnare di più), razionate, tartassate, richieste di rientri cui non possono adempiere, prive dei denari per andare avanti. Sul punto è facile essere manichei e seguire il mainstream, che agevola chiunque strizzi l’occhio alle Pmi, tanto le banche sono indifendibili. Un bel post di Fabio Bolognini ci ricorda invece che se le banche talvolta non sono capaci di esaminare un piano di risanamento, è altrettanto vero che le imprese, specie le Pmi, non sono capaci di presentare un piano decente, quando lo presentano. Ovvero, si limitano a fare presente un problema, quello della mancanza di liquidità, ipotizzando che di tutto il resto, compresi gli stipendi, le ritenute etc..debbano farsi carico, appunto, le banche. Che se non lo fanno, diventano subito colpevoli. Cercare colpe, in questo momento non è molto produttivo; può essere tranquillizzante, ma non costruisce nulla. Non aiuta le imprese a guardare dentro di sé, a capire errori e problemi, lavorando sulla formula competitiva e cercando di capire dove non funziona; dare dell’untore alla banca, d’altra parte, serve per continuare ad eludere la grande questione che la crisi, da almeno 5 anni, sta ponendo, ovvero la necessità di ricapitalizzare le imprese. Con soldi veri, buoni, degli imprenditori, non di qualcun altro, come piace dire a Vincenzo Boccia. Su questo punto, con buona pace di tanti, le Pmi non ci sentono, né per amore, né per forza; auspicano piuttosto un rinnovo della moratoria, che non serve a nulla, perché sposterebbe, di nuovo, in avanti il problema. E’ giusto pretendere che le banche ti stiano almeno a sentire, magari anche che ti spieghino perché ti hanno detto no. Ma con altrettanta chiarezza andrebbe detto che non puoi pretendere che qualcuno capisca quello che nemmeno tu sai o conosci: sarebbe come se mi mettessi a spiegare reazioni chimiche o fenomeni fisici. Non è appena questione di avere un buon commercialista (altrimenti, mutatis mutandis, mi basterebbe avere delle buone slides per spiegare ciò che non conosco), si tratta proprio di un’altra cosa: si tratta di cominciare a capire le coordinate principali del lavoro imprenditoriale, si tratta di cominciare ad usare l’informazione, ad analizzare i dati, a sapere, per esempio, perché si ha bisogno di soldi. E’ un altro modo, è una cultura diversa del fare impresa, diversa dal semplice, e talvolta vano, sforzo titanico del “tirare avanti”. E proprio perché è un’altra cosa, ci vuole la pazienza, quella che solo un’educazione consente. Su questo punto ci vuole il lavoro di tutti, perché solo questo costruisce. Continuare a lamentarsi e pretendere sarebbe sterile come la protesta degli indignados. Per costruire non ci si può solo lamentare, si deve avere uno sguardo positivo sulla realtà.

Con chi ci vuole stare, siamo pronti per questo lavoro. Vaste programme.

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Il blocco (mentale) dell’autotrasporto.

Il blocco (mentale) dell’autotrasporto.

Curiosando sulla rete alla ricerca di cifre e di informazioni circa la suddivisione del trasporto merci fra gomma, rotaia etc..mi sono imbattuto solo in articoli datati, come questo, peraltro interessante e ben argomentato. E ho ricordato gli anni ’60 ed il nuovo modello di sviluppo di Ruffolo, quello che voleva togliere l’auto dal centro del mondo per favoleggiare di altro, in anni in cui a Torino si diceva che ciò che era bene per la Fiat era bene anche per l’Italia. Giorgio Ruffolo e gran parte della sinistra sindacale di quei tempi erano se non massimalisti, spesso solo velleitari, scollegati dalla realtà come solo il PdL di adesso sa fare, ma forse qualcosa di quello che dicevano si potrebbe recuperare. Provo a capirci qualcosa guardando i numeri e scopro che:

  1. i trasporti su rotaia non sono convenienti per le distanze entro 1000 km (ovvero mai in Italia);
  2. per rendere convenienti i trasporti su rotaia bisogna investire sulla medesima, come hanno fatto i francesi ed i tedeschi (hai visto mai?);
  3. l’Italia NON ha investito sulla rotaia, come prova lo schifoso viaggio che ho fatto ieri mattina, dismettendo stazioni e tratte che non erano convenienti, in una logica molto privatistica, tranne che per le relazioni sindacali (consiglio a Stella e Rizzo di andare a curiosare nei dopolavoro ferroviari, per esempio);
  4. dunque i camionisti, o camionari, come dicono in Veneto, godono di una rendita di posizione, mi spiace dirlo, ma è così, insidiata solo dalla concorrenza dell’Est (benedetta UE, almeno a qualcosa serve); un camionista bulgaro costa un terzo di uno italiano, 15mila euro del primo contro 45mila del secondo;
  5. nonostante la rendita, gli sgravi fiscali e le molte altre agevolazioni, i camionisti non ce la fanno, o perlomeno, molti di loro; d’altra parte se basta un aumento del prezzo delle materie prime ad azzerare i margini, significa che già erano bassi.

Fin qui le “scoperte” dell’acqua calda. Dalle scoperte alle conclusioni.

La prima: forse non è un business conveniente? Forse a certe dimensioni non lo è mai stato, se è vero che tanti bilanci visti personalmente di aziende di autotrasporto, in molti e molti anni, recavano l’utile solo grazie alle plusvalenze per la cessione degli autocarri riscattati in leasing, inquinando la redditività operativa con ricavi extracaratteristici. Il buon senso, prima ancora della logica economica, imporrebbero di essere coscienti che chi ha margini modesti non può giocare con la finanza (inevitabile pensare a quante aziende di autotrasporto hanno debiti che non pagheranno mai perché non dovevano farli, non potevano permetterseli), ovvero che queste aziende se faticano a pagare i dipendenti, tanto più non possono farlo a debito.

La seconda: gli investimenti in infrastrutture, compreso il Ponte sullo Stretto, potevano prefigurare, se fatti per tempo, un nuovo vero modello di sviluppo. Ma non si riesce a fare partire la TAV (a proposito, perché nessun blocco in Val di Susa?), figuriamoci qualsiasi altra iniziativa: in ogni caso, ne godranno i nostri nipoti. Ma sono necessari, meglio farli tardi che non farli mai.

Infine: tagliare le rendite, liberalizzare, privatizzare può servire, può dare risorse, può aiutare questo gigantesco processo di riconversione delle infrastrutture, senza farci precipitare nella sindrome cilena (ma Mario Monti in elmetto e mitra a Palazzo Chigi non ce lo vedo). Ma deve essere guidato, sorretto da idee e da un progetto. Si cercano idee forti per la politica, mentre questa ha abdicato a se stessa. Buon lavoro a tutti.

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No TAV 2: il passato che ritorna.

Credevo che la sporcizia, i ritardi e, soprattutto, le prese in giro delle Ferrovie dello Stato fossero un ricordo del mio passato di studente, quell’Espresso del Levante lercio e puzzolente, dove a volte non potevi salire perché nelle carrozze c’era la gente stravaccata. Mi sbagliavo. A parlare male delle Ferrovie Italiane, a quanto pare, non si sbaglia mai.